La trama che non c’era (o forse sì): il genio della scrittura “per omissione” di Five Nights at Freddy’s

Quando Five Nights at Freddy’s uscì nel 2014, sembrava solo l’ennesimo indie horror con jumpscare a buon mercato. Animatronics inquietanti, luci che si spengono da sole, rumori strani in corridoio… tutto nella norma. Ma poi i fan hanno iniziato a scavare. E scavando, hanno trovato qualcosa. O meglio: hanno iniziato a sospettare che forse ci fosse qualcosa da trovare.

Perché sì, FNAF non ha mai raccontato una trama nel senso tradizionale del termine. Nessun filmato introduttivo epico, nessuna voce narrante a spiegare cosa diamine stia succedendo. Al suo posto, un tizio che deve sbarcare il lunario, registrazioni vagamente minacciose, disegni infantili appesi alle pareti e minigiochi 8-bit con coniglietti che fanno cose strane. Un puzzle sparpagliato, fatto di pixel e paranoia.

L’arte della trama seminata

Scott Cawthon, il creatore della serie, ha adottato una tecnica narrativa che potremmo definire “scrittura per omissione”. Invece di raccontare, suggerisce. Invece di spiegare, insinua. Ogni elemento — dallo sfondo di una stanza al suono fuori campo — può contenere un frammento di verità. Il giocatore, incuriosito, si trasforma così in detective, teorizzando su forum, sezionando frame su YouTube e discutendo per ore se quella macchia rossa sia sangue o ketchup.

È una scrittura costruita sull’ambiguità, una “lore” che si nasconde più di quanto si mostri. Nei primi giochi della saga, la trama si intravede tra gli interstizi: un uomo (forse viola?) rapisce e uccide bambini, i loro spiriti finiscono dentro gli animatronics, che a loro volta perseguitano il giocatore notturno. Ma niente viene mai detto chiaramente. E questo, paradossalmente, è stato il vero colpo di genio.

Il gioco nella testa

Cawthon non ha solo creato un gioco: ha creato un metagioco. Il vero horror, dopo qualche notte, non era più farsi saltare in aria da Freddy, ma cercare di capire perché Freddy stesse facendo tutto questo. Cos’è successo in quel ristorante? Chi è William Afton? Chi è Golden Freddy e perché ha un nome da carta di Yu-Gi-Oh!?

La community è esplosa. Reddit, YouTube, Tumblr: ovunque, ipotesi e contro-ipotesi. Alcuni fan hanno ricostruito cronologie plausibili con una dedizione da storici medievali. Altri hanno prodotto video lunghi ore solo per spiegare perché “il morso dell’87” non è quello che pensavamo. E poi c’era MatPat, con la sua inconfondibile frase: “That’s just a theory… A GAME theory!”

Una delle Game Theories di MatPat che più mi appassionarono.

Questa forma di scrittura partecipativa, in cui sono i fan a dare senso agli indizi, ha trasformato FNAF da gioco indie in fenomeno culturale. Cawthon ha capito che il mistero è un motore narrativo potentissimo — ma solo se il pubblico si fida che da qualche parte esista una soluzione.

Quando il mistero rischia di diventare frustrazione

Il rovescio della medaglia? Quando si gioca troppo con l’ambiguità, il pubblico può stancarsi. E infatti, intorno al quarto capitolo, molti fan hanno iniziato a domandarsi: “E se non ci fosse una verità? E se stessimo solo inseguendo fantasmi narrativi?” Alcune teorie si sono fatte talmente contorte da sembrare esercizi di stile più che analisi logiche. Il rischio era reale: trasformare il piacere della scoperta in un eterno mind game senza via d’uscita, come i fan hanno iniziato a lamentare verso il quarto gioco.

Il quinto capitolo, Sister Location, ha cercato di porre un rimedio. Per la prima volta, Scott ha concesso una narrazione più lineare, con cutscene, dialoghi, e persino qualche risposta. Il personaggio di William Afton viene finalmente introdotto chiaramente, e alcuni nodi si sciolgono (più o meno). Ma anche qui, il gioco non ti dà tutte le risposte. Ti dà solo abbastanza per farti capire che, no, non hai ancora capito tutto.

Scrivere nel caos: un’arte sottile

La tecnica di scrittura di Five Nights at Freddy’s è un caso da manuale di narrazione ambientale e “storytelling per omissione”. Ma va detto: è anche una tecnica ad alto rischio. Funziona quando gli indizi sono dosati con maestria, quando dietro il caos apparente c’è una logica nascosta, quando il creatore dà l’impressione di sapere esattamente dove sta andando — anche se non ce lo dice.

Se usata male, questa tecnica può alienare il giocatore, farlo sentire manipolato, o peggio: annoiato. Ma se usata bene, come nei primi (e migliori) capitoli di FNAF, può trasformare un horror da due soldi in una saga mitologica.

FNAF non ha avuto successo nonostante la sua trama caotica, ma grazie ad essa. In un’epoca di contenuti “mordi e fuggi”, il gioco ha fatto una scelta controintuitiva: non darti risposte, ma spingerti a cercarle. E così facendo, ha creato un fandom che ancora oggi, dieci anni dopo, continua a inseguire l’uomo viola nei propri incubi.

Dopotutto, cos’è più spaventoso di un coniglio robotico assassino? Un enigma senza soluzione.

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Autore: Gabriele Glinni

Esperto di informatica, amante della scrittura creativa. Autore di Ascend-ent e Descend-ent. Sostenitore dell'arte della composizione di messaggi efficaci ed eloquenti.

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