Dungeons & Dragons è, con ogni probabilità, il gioco di ruolo da tavolo più famoso di sempre. Nel corso degli anni svariati scrittori si sono ispirati alle avventure vissute assieme agli amici per trovare materiale per le proprie storie, portando sulle proprie pagine personaggi e situazioni fino a quel momento note solo a poche persone. È più raro imbattersi in un autore che abbia contribuito in modo concreto a espandere l’universo di gioco, realizzando un intero manuale di ambientazione che tutti possono utilizzare per diversificare le campagne con tanti elementi diversi, come incantesimi, oggetti e talenti. Paolo Ferrante si è cimentato proprio in un’impresa di questo tipo, creando “Wagham”, un manuale del mondo pensato per arricchire in modo consistente l’esperienza dei giocatori della quinta edizione di D&D. All’opera ha contribuito Giulia Carafa in qualità di artista.
Dopo aver creato l’ambientazione, Paolo Ferrante l’ha poi usata come base per il suo romanzo edito con PAV Edizioni, chiamato proprio “La gilda di Wagham”. Oggi faremo quattro chiacchiere in taverna con lui per capire meglio com’è nato il libro e quanto è stretto il suo legame con il manuale di ambientazione.
Ciao Paolo e benvenuto su Pillole di Folklore & Scrittura! Proprio come “La gilda di Wagham”, anche questa intervista inizia con l’alcol. Non posso offrirti un boccale a distanza, ma posso farti una domanda a tema: quali birre o altri alcolici associ al tuo libro?
“All’alcool! La causa di… e la soluzione a… tutti i problemi della vita.” Disse Homer Simpson, un po’ il prototipo di “sempliciotto dal cuore d’oro” che si può benissimo associare a Sutr, il nano che si vede in copertina. Per quanto riguarda le birre penso a quelle artigianali, e non potrebbe essere altrimenti: hanno “personalità”, ogni produzione è diversa e raccontano anche qualcosa del suo autore. C’è poi da dire che la birra in questo libro la bevono a temperatura ambiente, se non addirittura appena tirata su a mestolate dal calderone fumante. È certo più densa e ricca di lieviti, quindi direi che se dovessi associare a una birra a questo romanzo sarebbe una weizen torbida non pastorizzata, a temperatura ambiente: ti fa storcere il naso, ti lascia la bocca impastata, ma la vuoi bere lo stesso, perché ne senti proprio bisogno! Poi ci sono i vini, che hanno un ruolo specie con riferimento all’Impero di Arcotia, e poi nulla dice opulenza quanto bere un bicchiere di vino col ghiaccio quando ti trovi in una regione equatoriale!
So che Wagham è nata come ambientazione per un manuale che i giocatori della quinta edizione di Dungeons & Dragons possono usare per espandere la propria esperienza e trovare tanti spunti diversi dal solito. Com’è stato lavorare a un progetto simile?
Lavorare al Manuale di Wagham è stato lungo (dal 2019 al 2023) e a tratti estenuante, specie quando si doveva piallare tutto e ricominciare da capo per alcune cose. Ho cercato sin dall’inizio di mantenere una certa coerenza interna di fondo, questo era diventato particolarmente difficile in un server che contava circa un centinaio di attivi, ognuno avrebbe voluto fare le cose a modo suo e questo implicava spesso la proposta di inserire cosa come “i giapponesi”, o “i vichinghi”, o anche altre cose del genere che avrebbero trasformato l’ambientazione in un Age of Empire in cui, per qualche assurdo motivo, ci troviamo culture totalmente differenti a pochi pixel di distanza.

Adottare una mappa in scala (circa 80km in linea d’aria tra Wagham e Vinoverno), a quale latitudine si trova il continente, avere una mappa delle correnti, aver calcolato il meridiano del pianeta, la durata dell’anno solare e le stagioni… tutte questi passaggi sono essenziali per un’ambientazione che non vuole rispondere a ogni domanda dicendo “ehm, è così perché c’è la magia” ma vuole avere una coerenza estrema, accompagnata da una certa verosimiglianza. Questo non significa che deve assomigliare al pianeta Terra (e infatti non ci somiglia), ma avere una coerenza interna fantascientificamente apprezzabile.
La ricetta che ha tenuto assieme la coerenza del Manuale è stata quella del voler adottare un piglio fantascientifico per quanto riguarda gli aspetti “planetari” ed evolutivi delle specie, un approccio filosofico nella concezione dei piani d’esistenza (che in qualche modo supera la concezione tanto cara al concetto di “multiverso”, che da qualche tempo ha monopolizzato l’attenzione, ma allo stesso modo presuppone un atteggiarsi “atipico” del concetto di spazio-tempo) e un approccio per certi versi mistico e per altri parapsicologico alla “magia” (parto dalla definizione di Aleister Crowley, che sviluppo combinandola ai concetti filosofici di cui prima). Quello che esce fuori è un sistema complesso, che vede convivere i due modelli di Sanderson, quindi abbiamo un sistema che combina elementi “hard magic” e “soft magic”, in cui c’è rigidità per alcuni aspetti (quelli più connessi al “piano orizzontale”) e più morbidezza per altri (“piano verticale” ad esempio), che sono degli ideali quasi mai presenti in “purezza” (e quindi i diversi “piani diagonali”) ma si combinano e consentono di ottenere un numero potenzialmente infinito di coordinate “esatte” (dove con “esatte” intendo “coerenti internamente”).
Il passaggio dal manuale di ambientazione al romanzo è stato difficoltoso?
Il passaggio, per me, è stata la cosa più facile del mondo! Avevo un’ambientazione curata nei minimi dettagli, avvenimenti storici che scandivano ogni passaggio dell’evoluzione dei popoli (grandi migrazioni, guerre, disastri…) e alcuni personaggi chiave legati a certi eventi (profeti, condottieri, riformatori…).

Già l’ambientazione si prestava a un’interpretazione in chiave ironica, anche demenziale; senza contare che ho giocato a D&D questi personaggi (da Master e/o da Giocatore) quindi tutti i loro tratti ormai sono impressi nella mia memoria e testati sul campo, in un certo senso. La difficoltà è stata nel creare una trama che li mettesse assieme e per questo ho dovuto limare qualcosa nella cronologia degli eventi per far succedere qualcosa in un momento in cui sarebbe stato interessante per la storia. La difficoltà è arrivata anche nel cercare di contenere tutte le informazioni: di tutte le regole della magia i personaggi non ne sanno niente (così come noi non conosciamo le regole dell’universo) e anche il lettore ne può fare benissimo a meno perché riuscirà comunque a percepirne la logica e la coerenza. Anche coi popoli, dei circa 30 ne ho approfonditi giusto 3 e non avrei potuto agire diversamente, per non sovraccaricare il lettore e per sviluppare un ragionamento logico senza troppe digressioni (che invece sto facendo in questa intervista, perché sono pessimo).
Anche chi non sa nulla di D&D può leggere “La gilda di Wagham” o rischia di godere a metà come chi non si lecca le dita dopo aver mangiato i Fonzies?
Sì e, forse, può goderne anche di più. Mi spiego: spesso chi gioca a D&D conosce esclusivamente quel sistema di regole, quell’ambientazione (i Forgotten Realms, più raramente Dragonlance), dimenticando che anche lo stesso D&D ha una moltitudine di altre ambientazioni (Eberron, Dark Sun….) che si basano su presupposti diversi. Per godere di questo libro, oltre a essere stronzo, si deve avere una certa propensione all’ironia e alla scoperta senza preconcetti. Un esempio: il romanzo inizia in territorio nanico quindi “ah ok, allora Sutr è Gimli e Sylvalar è Legolas, i nani odiano gli elfi, gli elfi sono altezzosi, allora i non-morti sono guidati dal Signore degli Inganni…” NO!
Quali sono state le tue fonti di ispirazione durante la creazione del libro? (oltre a D&D, ovviamente)
Di D&D ho letto pochissimo, proprio perché volevo concepire qualcosa di diverso. Le fonti possono essere le più diverse: fantascienza in primis (Asimov!), romanzi storici (per le guerre tra popoli) e moltissima sociologia e mitologia. L’elemento antropologico è quello principale ed è anche quello che vuole emergere. Sono uno di quelli che pensa che il fantasy è uno strumento potentissimo per consentirci di analizzare i fenomeni sociali con un certo distacco che possiamo ottenere immedesimandoci in una realtà fittizia. Un po’ come “La Storia Infinita” di Ende e la minaccia del Nulla (in Wagham c’è la Frattura che ha un significato molto diverso, che non viene ancora svelato). Il mio modo di farlo è quello di creare un romanzo che parodizza il modello High Fantasy per aiutarci a capire che esistono tante vie di mezzo e il mondo non si divide necessariamente in “bene e male”. Ogni fondamentalismo nasce dal presupposto che “noi siamo i buoni, gli altri sono i cattivi e quindi li dobbiamo ammazzare”; pensare di combattere il fondamentalismo ammazzando i fondamentalisti (perché, giustamente, noi siamo i buoni e quindi…) è demenziale, ed è proprio questa demenzialità che va evidenziata con gli aspetti più grotteschi del romanzo. Si devono mettere in fila tutti i preconcetti e distruggerli, ribaltarli, arrivare alla conclusione che “diverso” non vuol dire “minaccia”.
Quali aggettivi assoceresti a “La gilda di Wagham”? E quali canzoni possono tenere in sottofondo i lettori per immergersi meglio nella trama? (lo so, sono due domande in una, ma oggi mi sono svegliato caotico malvagio)
Wagham è strano, ironico, diverso. L’ho scritto tenendo in sottofondo musica Metal (dal più estremo Black e Death, al più leggero Gothic) per alcune parti, Folk (balcano, slavo, russo, scandinavo…) e classica (specialmente musica corale, quindi Palestrina per la parte sacra e Monteverdi per i madrigali; ma anche strumentale coi concerti per clavicembalo di Bach e Scarlatti).

Ecco, la cosa importante è forse cosa non ascoltare: la televisione e il cellulare. Per immergerti in Wagham devi estraniarti dalla realtà, lasciarla fuori e prenderti un po’ di tempo per approfondire i problemi di questo mondo immaginario e dei suoi personaggi di fantasia, fermarti a pensare alle motivazioni che li hanno portati a fare (o non fare) una determinata scelta, ma sospendi il giudizio: è evidente che sono pieni di difetti, sono uno peggio dell’altro e riescono a fare schifo ognuno in modo diverso: chi troppo qualcosa e chi poco qualcos’altro. Sì: proprio come noi.
Quello uscito finora è solo il primo volume della serie. Quanti saranno in totale? Stai lavorando anche a qualche progetto che non ha nulla a che fare con Wagham?
Ho già finito di scrivere il secondo e ci sono tutti gli appunti pronti per cominciare a sviluppare il terzo. Saranno almeno quattro, non ho un numero preciso, ci sono talmente tante sottotrame lasciate aperte col primo libro (alcune delle quali resteranno aperte anche alla fine del secondo, che a sua volta ne aprirà altre) da sviluppare che devo mettere in scaletta ogni cosa per non perderne traccia. L’obiettivo è quello di sviluppare una saga che porti avanti una sorta di “romanzo corale” (nel secondo volume diventerà più evidente) applicato al Fantasy che a sua volta comincia con questo libro che mutua dal High Fantasy l’incipit e la “chiamata all’azione” che però si dimostra presto essere una parodia. Quello che ne esce fuori è un Low Fantasy che, già nel terzo volume, si ibriderà con la Sci-Fi per diventare uno Sword&Planet. Forse dopo aver creato una solida impalcatura con un ciclo iniziale potrei prendere in considerazione di proseguire con romanzi autoconclusivi ambientati in luoghi ed epoche tralasciati (per ragioni di sintesi), l’aspirazione è tirare fuori qualcosa di paragonabile a quello che ha fatto Marion Zimmer Bradley con la saga di Darkover. Ho provato a scrivere qualcosa che non fosse Wagham, mi erano venuti anche spunti di trama simpatici… ma non ho mai iniziato a svilupparli: non riesco a fare niente che non sia ambientato a Wagham!
Grazie ancora per il tempo che ci hai dedicato Paolo!
Potete trovare “La gilda di Wagham” sul sito di PAV Edizioni e su Amazon. QUI, invece, potete trovare il manuale di ambientazione.