Benvenuti a un nuovo episodio di Pillole di Folklore e Scrittura, lo spazio dove la parola si fa ponte tra il vissuto e l’immaginario, tra le radici profonde delle emozioni e la forza salvifica della scrittura.
Oggi abbiamo l’onore di ospitare Giorgia Deidda, autrice della raccolta poetica Una pancia piena di sassi, pubblicata da Placebook Publishing nel 2022. Un libro che non si legge, ma si attraversa, come un campo minato emotivo, una voce poetica che taglia, brucia e cura.
Preparatevi a un viaggio nelle zone d’ombra dell’animo umano, dove la parola non consola, ma rivela.
La sinossi:
“Giorgia Deidda ha 28 anni e viene da Orta Nova, un paese in provincia di Foggia. Questo è il suo quarto lavoro come silloge poetica, pubblicato con la Placebook Publishing & Writer Agency. La silloge è particolare perché contiene, in ogni sua poesia, la parola “osso”, molto probabilmente di ispirazione Montaliana.
Giorgia studia attualmente Lingue all’università di Foggia. Ha pubblicato una silloge poetica dal titolo “Sillabario senza condono”, un romanzo dal titolo “La fenice sul filo di spago” e un libro, come curatrice del centro diurno “Melograno” intitolato “Oltre la fermata; tra sogno e realtà”.
Giorgia ha diversi interessi tra cui la letteratura russa e tedesca, ed è influenzata nella scrittura principalmente dalle poetesse confessionali quali Sylvia Plath, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi ed Anne Sexton.”
Giorgia, partiamo dal titolo: Una pancia piena di sassi. È un’immagine fortissima. Ricordi quando l’hai pensata per la prima volta? Cosa rappresenta per te?
Sì, lo ricordo bene. È un’immagine che mi è arrivata di colpo, in un momento in cui cercavo di dare un nome a una sensazione fisica e emotiva molto concreta: quella di portarsi dentro qualcosa di pesante, scomodo, difficile da spiegare. Una pancia piena di sassi è il modo in cui il corpo racconta quello che a volte le parole non riescono a dire: dolore, rabbia, silenzi ingoiati, esperienze non digerite. Per me è diventata una metafora potente, un punto di partenza per raccontare una storia che è insieme intima e collettiva.
Nella tua raccolta si sente l’eco potente di Sylvia Plath, ma anche una voce tutta tua, cruda e inconfondibile. Come hai lavorato sullo stile e quali sono stati i tuoi riferimenti poetici principali?
Sylvia Plath è stata una delle mie prime rivelazioni poetiche. La sua voce mi ha insegnato che si può scrivere con ferocia, bellezza e verità tutte insieme. Ma nel tempo ho cercato di trovare un mio passo, una mia temperatura emotiva. Il mio stile è nato dal bisogno di dire le cose senza filtri, di non addolcire il dolore, ma nemmeno di spettacolarizzarlo. Mi hanno accompagnato anche Anne Sexton, Amelia Rosselli, Mariangela Gualtieri, Chandra Livia Candiani. E poi la musica, certi testi blues, certi silenzi lunghi. Ogni parola che resta, per me, deve suonare vera.
La tua poesia è viscerale, spesso dolorosa, ma mai compiacente. Come riesci a trasformare esperienze intime e traumatiche in materia poetica universale?
Scrivere è per me un atto di sopravvivenza, prima ancora che un gesto estetico. Le esperienze intime, anche le più dolorose, non le scelgo: mi attraversano. La scrittura le trasforma, le rielabora, le rende condivisibili. Credo che nell’autenticità del vissuto ci sia sempre un varco verso l’universale: ognuno riconosce qualcosa di sé nel dolore dell’altro. La poesia non consola, ma crea legami.
I temi che affronti – il rapporto con la madre, la maternità, la depressione – sono forti e complessi. C’è stato un momento in cui ti sei chiesta se fosse “troppo”? O è stato, piuttosto, un atto necessario?
Non mi sono mai chiesta se fosse “troppo”. Mi sono chiesta, piuttosto, se fosse “vero”. Scrivere è stato un atto necessario, quasi inevitabile. Quando certi temi ti abitano, non puoi ignorarli. Il dolore, la maternità, la fragilità psichica: non sono tabù, sono esperienze umane. Condividerle, nominarle, è un gesto politico oltre che poetico. Non per esibizione, ma per resistenza.
La parola nella tua raccolta è nuda, spesso spezzata. Quanto conta per te il silenzio, lo spazio bianco, il non detto nella costruzione poetica?
Conta moltissimo. Il silenzio, lo spazio bianco, il non detto sono parte integrante della scrittura, non un vuoto ma una presenza. La parola nuda, spezzata, nasce da lì: da quello che non si riesce a dire, o che si può solo sfiorare. Il bianco sulla pagina è il respiro della poesia, ma anche il suo confine: ciò che trattiene, che suggerisce, che lascia spazio all’ascolto.
Cosa speri rimanga al lettore dopo aver chiuso l’ultima pagina di Una pancia piena di sassi?
Spero resti un senso di verità, anche se scomoda. Non una verità assoluta, ma quella che nasce dal corpo, dall’esperienza, dall’emozione. Vorrei che il lettore si sentisse meno solo, che trovasse in quelle fratture qualcosa che risuona con le proprie. Una pancia piena di sassi non offre risposte, ma forse una compagnia nel dolore, una lingua per ciò che spesso resta muto.
Hai nuovi progetti in cantiere? Possiamo aspettarci un seguito, o stai esplorando nuove direzioni artistiche?
Sì, ho un romanzo in uscita a breve. È un passaggio naturale ma anche una sfida: portare quella stessa urgenza e densità della poesia dentro una narrazione più ampia. Non è un seguito, ma ci sono echi, ossessioni che ritornano. Sto anche esplorando altre forme, altri linguaggi. Scrivere resta per me un modo per abitare le crepe, ma ogni crepa ha la sua voce.
Grazie di cuore, Giorgia, per aver condiviso con noi la tua voce, la tua poesia, e quella verità scomoda ma necessaria che attraversa ogni tua pagina.
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