Ricordate Abe? Sì, quel buffo alieno blu con la bocca cucita e il passo da impiegato del catasto dopo 12 ore di straordinario non pagato. Oddworld: Abe’s Oddysee (1997) era questo: un gioco platform dove il protagonista non doveva salvare la principessa o collezionare monete, ma scappare da una macelleria industriale dove lui e i suoi simili venivano letteralmente trasformati in snack.
Un concept così oggi farebbe tremare i reparti marketing: “Troppo cupo!”, “Non è family friendly!”, “Ma i bambini come lo prendono?”. Già, perché se c’è una cosa che i videogiochi moderni hanno smesso di fare, è trattare il giocatore come un adulto pensante.
Abe non è un eroe. È un dipendente licenziabile.
Oddworld raccontava una storia scomoda. Non era fantasy, non era sci-fi pura: era una distopia industriale, un racconto amaro mascherato da favola interattiva. I Mudokon (la razza di Abe) sono schiavi, operai senza diritti, sfruttati da una razza dominante – i Glukkon – una parodia grottesca del capitalismo estremo. L’incipit è geniale: Abe, mentre pulisce i pavimenti, scopre che il nuovo prodotto in catalogo sarà… lui. O meglio, i suoi simili, processati e inscatolati come salame.
Da quel momento, il gameplay diventa una fuga, un sabotaggio, una lotta per la sopravvivenza. Ma attenzione: non c’è gloria. Non c’è la musica trionfale da Marvel. Abe non diventa un eroe leggendario. Rimane un poveraccio con due dita per piede, in lotta contro un sistema che non ha nessuna intenzione di cambiare.
Dove sono finiti i giochi che osavano?
La domanda è lecita. Negli anni ’90, tra un Crash Bandicoot e un Metal Gear Solid, c’era spazio per la sperimentazione, anche narrativa. I giochi non avevano paura di essere politici, crudi, persino disturbanti. Oddworld metteva sul piatto temi come lo sfruttamento lavorativo, il colonialismo, il razzismo sistemico, la manipolazione aziendale. Ma lo faceva con ironia nera, un’estetica unica e una scrittura tagliente.
E oggi? Oggi il massimo della trasgressione narrativa è quando un gioco tripla A osa inserire un personaggio LGBT, salvo poi fargli fare esattamente le stesse cose che farebbe l’eroe bianco etero: sparare a tutto ciò che si muove in 4K. Il tutto tra una cutscene lacrimosa e una missione secondaria con microtransazioni.
Child-friendly, ma a che costo?
Il videogioco è diventato grande. È mainstream, ha superato il cinema in fatturato. Ma con la crescita è arrivato anche il bisogno di “non disturbare troppo”. Il linguaggio si è semplificato, i messaggi edulcorati, i protagonisti sempre più simili a manichini col carisma di una suola di scarpa. Dove Oddworld gridava “il capitalismo ti mangerà vivo!”, oggi un qualsiasi blockbuster videoludico ti sussurra “compra il Season Pass”.
Oddworld non era perfetto. Era difficile, crudele, talvolta frustrante. Ma aveva personalità, aveva voce. Aveva qualcosa da dire. E lo diceva senza farti il tutorial di 40 minuti su come saltare. Ti lanciava in un mondo brutale e diceva: “Sopravvivi, se ci riesci. Ma almeno ora sai contro cosa stai lottando.”
Il paradosso del buffo che fa pensare
Un altro aspetto geniale? Il contrasto tra forma e contenuto. Abe è simpatico, fa peti su comando, comunica con una vocina squillante. Ma dietro il design cartoonesco si nascondeva una delle narrazioni più toste mai viste in un videogioco.
Questa scelta non era casuale: era voluta. Il team di Oddworld Inhabitants voleva rendere l’orrore digeribile, far riflettere il giocatore senza prediche, usando l’empatia e l’ironia. E ha funzionato.
La vera nostalgia: quando i giochi ci trattavano da adulti
Non è solo nostalgia tecnica, grafica o sonora. È nostalgia di quando i videogiochi non avevano paura di farti pensare. Quando non dovevano per forza venderti un brand, una linea di action figure o una collaborazione con Burger King. Oddworld: Abe’s Oddysee era un gioco che non si vergognava di puntare il dito. Di dire che il sistema è marcio. E che chi ne fa parte, volente o nolente, è carne da macello.
Oggi si parla tanto di “esperienze narrative profonde”. Ma spesso si tratta solo di copioni hollywoodiani ricalcati, con personaggi scritti al millimetro per non offendere nessuno. Una volta, invece, c’era Abe. Che puzzava, era magro, goffo, insignificante. Ma aveva una cosa che oggi sembra quasi proibita: una coscienza.
Oddworld non era solo un videogioco. Era un atto di accusa con la forma di un platform. E oggi, in un’industria dove tutto è testato, filtrato, livellato, il suo grido di ribellione suona ancora più forte.
Quindi sì, ridatemi Abe. Col suo sguardo da “sto per morire male”, la sua goffaggine e la sua umanità aliena. Perché, in fondo, era più reale di tanti protagonisti in ray tracing.


La profondità è stata sostituita da un bello schema tecnico su come si fa un personaggio coerente… Il modello quindi ha superato la realtà, l’ha soppiantata e adesso quello che è reale non è più rappresentabile, perché inverosimile.
Ehi ma l’acqua è bagnata e la sabbia si infila dappertutto! Impossibile, so che non è vero, c’è scritto qui! 😀
"Mi piace"Piace a 1 persona
MASTERFUL ANALYSIS
"Mi piace"Piace a 1 persona