Il cattivo da film hollywoodiano funziona ancora? Sì – Il caso di Albert Wesker

C’è una regola non scritta nel mondo della narrativa: se il tuo cattivo somiglia troppo a un villain da filmaccio anni ‘80, forse è il caso di rivedere la sceneggiatura. Occhiali da sole al chiuso? Male. Monologhi su come sterminare l’umanità per “salvarla”? Peggio. Aspirazioni da divinità? Dai, su.

Eppure…

Albert Wesker, con il suo guardaroba total black, la voce da doppiatore teatrale e i piani da James Bond sotto steroidi, è uno dei cattivi più amati e riconoscibili della storia dei videogiochi. Sì, proprio lui, quello che in Resident Evil 5 ci regala perle immortali tipo:

“In less than five minutes, we will reach the optimal altitude for missile deployment. Uroboros will be released into the atmosphere, ensuring complete global saturation.”

Trovami un villain Marvel che abbia detto qualcosa di altrettanto extra.

La verità è che Albert Wesker non funziona nonostante sia una macchietta, ma proprio perché lo è. E da questo possiamo imparare molto.

Il cattivo che voleva diventare Dio. Letteralmente.

Albert Wesker non si accontenta di un piano malvagio. No, lui deve puntare alla divinità. Il suo obiettivo in Resident Evil 5 è usare un virus mutageno per purificare l’umanità, eliminare i deboli (cioè tutti tranne lui) e riscrivere il destino evolutivo della Terra. È un piano talmente assurdo che persino Chris Redfield, il protagonista, non riesce a prenderlo sul serio:

“You’re just another one of Umbrella’s leftovers.”

Eppure, proprio perché è troppo, Wesker affascina. È carismatico, esagerato, in controllo assoluto della scena, e sembra perfettamente a suo agio nella sua follia. È l’equivalente narrativo di un cocktail con troppo alcol, troppa decorazione e un ombrellino fluo: over the top, ma delizioso.

Gli ingredienti del cattivo ridicolo che funziona

1. Presenza scenica

Wesker non entra in una stanza: irrompe. Ogni volta che compare, la tensione sale. Merito delle animazioni teatrali, degli sguardi da sociopatico freddo e delle pose alla “modello su Vogue: edizione apocalisse”.

2. Dialoghi memorabili

Le sue battute sono scritte come se stesse recitando Shakespeare con la colonna sonora di Matrix in sottofondo. Sono teatrali, gonfie di ego, e incredibilmente quotabili.

3. Estetica distintiva

Vestito di pelle nera, occhiali da sole anche al buio, capelli biondo platino gellati alla perfezione: Wesker ha un look che grida “villain iconico” da ogni pixel. E nei videogiochi, l’impatto visivo è metà del lavoro.

4. Boss fight impegnative

Quando lo affronti, non è solo una cutscene con due QTE. Le sue battaglie sono difficili, scenografiche, e narrativamente coerenti con la sua megalomania. Wesker vuole dimostrarti che è migliore di te, anche nel gameplay.

5. Un rapporto personale col protagonista

Non è un cattivo generico. Ha un passato con Chris Redfield. Ha manipolato Jill Valentine, le ha fatto il lavaggio del cervello. Chris lo odia a morte, e, allo stesso tempo, lo teme. Wesker è dentro la storia, non solo sopra di essa. Questo lo rende personale, e quindi più coinvolgente.

La vera lezione: l’arte dell’eccesso consapevole

Wesker non è un personaggio “realistico”. Non ha dilemmi morali o profondità psicologiche alla Thanos. Non cerca la nostra comprensione. È fantastico così. Perché è costruito con consapevole esagerazione. È una parodia seria, un cliché elevato al quadrato che si prende così sul serio da diventare credibile.

In un’epoca dove spesso si confonde “realismo” con “buona scrittura”, Wesker ci ricorda che il fascino può risiedere nell’esagerazione ben fatta. Sembra una contraddizione, ma se lo fai con stile, funziona.

Ma allora… come si fa a scrivere un buon cattivo stereotipato alla Hollywood?

Ecco alcune regole d’oro, ispirate dal nostro amato supervillain in Ray-Ban:

  • Sii esagerato, ma con coerenza: un personaggio può essere larger-than-life, purché segua le regole del suo mondo.
  • Dagli una voce distintiva: letteralmente (nel doppiaggio) e stilisticamente. Le sue battute devono suonare come sue, non di chiunque altro. D. C. Douglas in particolare ha fatto un lavoro incredibile per Wesker.
  • Fallo visivamente memorabile: occhiali neri, mantello, cicatrici… funziona tutto, se si integra con il suo carattere.
  • Dagli relazioni forti: se ha un legame personale col protagonista, tutto diventa più intenso.
  • Fai in modo che goda nel fare il cattivo: i villain più divertenti sono quelli che si divertono nel farlo. Wesker? Si diverte un mondo.

Il finale: la caduta di un dio… un po’ anticlimatica?

Certo, non tutto è perfetto. La sconfitta finale di Wesker in RE5, con il classico lanciarazzi nella lava, lascia un po’ di amaro. Dopo tanta costruzione, forse meritava un epilogo più iconico. Ma anche qui, la sua fine rientra in quel cliché hollywoodiano che rende l’intero personaggio coerente fino in fondo.

Wesker ci mostra che si può prendere uno stereotipo e renderlo indimenticabile. Che si può essere teatrali, palesemente troppo, eppure conquistare i cuori (e i meme) di milioni di giocatori.

Perché, in fondo, non sempre serve un villain realistico. A volte basta un cattivo con stile, voce profonda, temibile, terrificante, e un piano folle per saturare il mondo con un virus.

E occhiali da sole. Sempre.

Avatar di Sconosciuto

Autore: Gabriele Glinni

Esperto di informatica, amante della scrittura creativa. Autore di Ascend-ent e Descend-ent. Sostenitore dell'arte della composizione di messaggi efficaci ed eloquenti.

1 commento su “Il cattivo da film hollywoodiano funziona ancora? Sì – Il caso di Albert Wesker”

Lascia un commento