C’è un racconto di Stephen King che mi tormenta da 23 anni

Un primo piano di Stephen King

A dieci anni si è grandi abbastanza per leggere i libri di Stephen King? Probabilmente no. Io di certo non lo ero, ma prima di smarrirmi tra le pagine di “Incubi e deliri” non ne ero consapevole. Mi consideravo un bambino piuttosto a suo agio con l’horror, perché dopotutto avevo iniziato a leggere con “Piccoli Brividi” e, assieme a mio padre, avevo portato a termine Resident Evil 3 sulla prima PlayStation. Diavolo, avevo persino visto un paio di film con il bollino rosso fuori dalla fascia protetta (o almeno le scene iniziali, prima di fuggire via al primo jump scare)! Zombie, vampiri e lupi mannari non mi facevano paura e nei libri non c’era alcunché che potesse saltare fuori dal nulla all’improvviso, quindi mi sentivo pronto ad affrontare il signor King e i parti più diabolici della sua mente.

La lettura di “Incubi e deliri” iniziò in spiaggia. Ero in vacanza al mare per un paio di settimane con la mia famiglia e una vicina di casa più grande di me di quattro anni. Fu proprio lei a prestarmi il libro. Da quel che ricordo, lo fece senza protestare, quindi presumo che pure lei mi ritenesse pronto per quell’impresa. I primi racconti non mi impressionarono troppo e forse leggerli con il profumo della salsedine nel naso e le orecchie piene delle urla dell’omino del cocco (“Cocco bello! Coccolatevi! Magico cocco!”) non aiutò a creare la giusta atmosfera. Ricordo che “La Cadillac di Dolan” mi annoiò abbastanza e che in un primo momento solo “Popsy” e “Il volatore notturno” riuscirono a tenere alta la mia attenzione, magari perché entrambe le storie ruotavano attorno ai vampiri. Tutto cambiò quando, su consiglio della mia vicina di casa, passai al racconto intitolato “Il dito”. Come accennato, da bambino non avevo grossi problemi con i mostri (anzi, li adoravo!), però tra le pagine del librone (800 e passa pagine) c’era in agguato qualcosa di ben più temibile: l’orrore psicologico.

Penso proprio che questa copertina non me la dimenticherò mai. MAI

“Il dito” iniziava senza troppi fuochi d’artificio: le prime righe del racconto si limitavano a descrivere il protagonista, Howard Mitla, mentre si alzava dal divano per andare in bagno a indagare su un rumore simile allo zampettìo di un topo. Armato di scopa, l’uomo apriva la porta pronto a fronteggiare un qualche roditore (magari un brutto ratto uscito da una fogna di New York), ma ad attenderlo trovava qualcosa di molto meno ordinario: un dito umano che sbucava dallo scarico del lavandino e picchiettava sulla ceramica con l’unghia.

Sulla carta, un dito è senz’altro meno terrificante di esseri come mummie e scheletri deambulanti, eppure l’idea di vivere un’esperienza simile a quella di Howard nella vita reale mi spaventò a tal punto da costringermi a interrompere la lettura del racconto dopo poche pagine e a farmi accompagnare in bagno di notte nei giorni successivi. Durante il resto della vacanza non trovai mai il coraggio di finire di leggere “Il dito”, però mi feci raccontare qualche dettaglio in più dalla mia vicina di casa. Lei non mi svelò il finale, però mi anticipò una capacità del dito: allungarsi fino a non essere più limitato ai confini del lavandino. Bastò quel singolo dettaglio a farmi passare ogni voglia di avere ancora a che fare con Stephen King.

Il dito nell’episodio di Monsters tratto dal racconto. Onestamente me lo sono sempre immaginato più inquietante.

Naturalmente nel corso degli anni molte cose sono cambiate. Stephen King è diventato uno dei miei scrittori preferiti in assoluto (anche se non posso certo dire di aver letto ognuno dei suoi libri, ne sforna troppi!) e la mia soglia di sopportazione nei confronti dell’horror psicologico è cresciuta di parecchio. Ormai riesco a leggere “Il dito” senza problemi e ad apprezzare anche i suoi aspetti più comici (che infatti sono diventati centrali nell’episodio di Monsters ispirato al racconto), ma devo ammettere che continuo a provare un po’ di inquietudine quando vado in bagno al termine della lettura.

Credo che dipenda da almeno due fattori:

  1. Nel racconto, King descrive una situazione al 95% ordinaria, nella quale il dito che sbuca dallo scarico del lavandino è l’unico elemento fuori posto. Ciò rende il tutto al tempo stesso surreale e “plausibile”. Intendiamoci, so bene che non mi capiterà mai di trovarmi di fronte a una scena del genere (come dice lo stesso Howard nel racconto, un braccio umano non riuscirebbe mai a farsi strada lungo le tubature), ma le scene descritte sono talmente vivide da mantenere intatta la sospensione dell’incredulità almeno fino al termine della lettura;
  2. Le origini del dito non vengono mai spiegate. Non si scopre mai perché si palesi solo quando il protagonista entra in bagno (la moglie non lo incontra mai) e non è nemmeno chiaro perché con il passare del tempo diventi abbastanza lungo da uscire dal lavandino e afferrare Howard. A un certo punto il protagonista decide di farlo a pezzi con delle cesoie elettriche e di scioglierlo con dei prodotti per sturare gli scarichi, ma dopo esserci riuscito si rende conto di essere solo all’inizio dell’opera: in ogni mano ci sono cinque dita e la creatura alla quale ne ha appena tagliata una potrebbe essersi infuriata. Il racconto termina con qualcosa che sta per uscire dallo scarico del water, mentre un poliziotto, arrivato perché i vicini hanno sentito delle urla allarmanti durante lo scontro tra Howard e il dito, si accinge a sollevare la tavoletta.
Stephen King. Mi sembra inutile specificarlo, ma magari prima o poi un alieno userà questo blog per documentarsi sull’umanità, quindi preferisco non lasciare nulla al caso.

Stephen King non ha mai chiarito la vera natura della creatura con la quale Howard ha avuto a che fare. Da un lato mi è sempre un po’ dispiaciuto non trovare una risposta alla fine del racconto o in altre storie dell’autore, ma dall’altro credo sia meglio così, perché il mistero contribuisce a rendere il tutto più inquietante: quando manca una risposta, ci pensa l’immaginazione a crearne una e spesso è più terrificante di quella che aveva in mente lo scrittore.

A rendere interessante il racconto sono anche le condizioni psicologiche di Howard, che sembrano degradarsi con il passare delle pagine. A un certo punto al lettore viene pure il dubbio che, come ipotizzato dal poliziotto, il protagonista possa davvero aver ucciso la moglie in un raptus di follia per poi disfarsi del corpo. Ci sono quindi più livelli di interpretazione possibili, il che rende le letture successive alla prima parecchio intriganti.

Per quanto la lettura di “Il dito” mi abbia traumatizzato da bambino, devo dire che sono grato di essermi imbattuto in un racconto del genere in tenera età, perché mi ha aiutato a capire che è possibile inquietare i lettori senza dover ricorrere ogni volta a creature mostruose, assassini folli o orrori provenienti dalle profondità del cosmo. A volte basta un semplice dettaglio fuori dal normale a stravolgere la vita dei protagonisti e a mettere profondamente a disagio chi legge le loro disavventure. È il risultato che ho cercato di ottenere con “La carne più buona del mondo”, un mio racconto che è stato pubblicato sul secondo numero della rivista Weirdbreed.

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Autore: Alessandro Bolzani

Mi chiamo Alessandro e, oltre a essere un giornalista, sono l’autore del libro urban fantasy Cronache dei Mondi Connessi – I difensori del parco, edito da PAV Edizioni. Nel 2023 ho vinto il concorso Sogni di Fantasy 2 con il racconto Sylenelle, ladra di sogni. Collaboro anche con la rivista Weirdbreed, per la quale ho realizzato il racconto La carne più buona del mondo, alcuni articoli e delle interviste. Nel mio blog, Pillole di Folklore e Scrittura, parlo di libri, scrittura creativa, mitologia, credenze popolari e, in generale, di tutto ciò che mi appassiona.

2 pensieri riguardo “C’è un racconto di Stephen King che mi tormenta da 23 anni”

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