Se il primo caso della saga Wolf Lonnie: Ace Attorney era una spensierata gita in aula tra funghi e testimoni stonati, il secondo è stato tipo: “Ehi, e se uccidessi un personaggio importante così, senza motivo?”.
Così nacque La morsa inoppugnabile: il mio secondo caso, scritto di getto, senza piani, senza coerenza strutturale, e con più colpi di scena di quanti il mio io quindicenne potesse effettivamente gestire.
E sì, lo ammetto: non avevo minimamente idea di dove volessi andare a parare. Ho letteralmente fatto morire la madre di Ayane, la mia spalla narrativa principale, solo perché… boh, mi sembrava una cosa seria. Penso. Credo. Qualcuno la chiamerebbe “scelta drammatica”. Io direi “improvvisazione selvaggia”.
La trama (a caso)
Betty Taubey, proprietaria di un laboratorio di moda, viene ritrovata morta all’interno del suddetto. Si sospetta dello stilista Jonathan Engarde (fratello di Matt Engarde), ma qualcosa non torna. Wolf, ancora inesperto e confuso quanto il lettore, viene trascinato in un intrigo con un assassino su commissione (Shelly de Killer), un procuratore cavaliere con tanto di spada (Blade Swordmaster), e un testimone, Pino Panzacchi, che parla come un personaggio dei Cesaroni.
Durante il processo, Pino testimonia, in romanaccio, di aver visto Jonathan Engarde far crollare un armadio su Betty nella sua stanza, ma Wolf riesce a dimostrare l’inesistenza di un movente e, soprattutto, il fatto che sia stata trovata una prova che implica troppo direttamente Engarde.
Dopo il processo, tramite una registrazione viene a sapere di un nome: Cruel Totarness. Un detenuto già dietro le sbarre, inquietante, in grado di controllare tutto, e soprattutto… scritto senza un vero piano. L’idea era che fosse tipo Kristoph Gavin, ma con il bonus di avere già il controllo completo della situazione fin dal primo minuto.
Cruel ha commissionato il delitto di Betty, all’interno del laboratorio di moda, all’assassino Shelly de Killer, ed Engarde è semplicemente un malcapitato che per errore era lì nei paraggi (così come Pino). Tuttavia, il movente di Cruel non viene spiegato, ma sembra essere legato a un caso nel passato chiamato AAT-5, legato a sua volta al passato di Wolf.
Apro una breve parentesi su tale passato (perché servirà per i prossimi riassunti): viene leggermente esplorato con un rapido flashback. Viene mostrata la famiglia Lonnie, composta da Thomas, un procuratore veterano e temuto, Ivy, sua moglie insegnante, Wolf e Saria, la sorella piccola di Wolf. Tra Wolf e Saria, tuttavia, c’è sempre stato attrito in quanto quest’ultima era non solo molto studiosa, ma anche estremamente intelligente e dotata, e Wolf invece era pigro e rinunciatario, sebbene specificamente il padre lo incoraggiasse di continuo a impegnarsi. Il caso AAT-5 è dove Wolf ha perso la sua intera famiglia nell’esplosione della sua casa. Chiusa parentesi.
La cosa interessante di Cruel: lui è villain che gioca col processo, anziché subirlo. E in effetti, anche per me che lo scrivevo, sembrava sempre due mosse avanti.
(sì, ero abbastanza fiero di lui.)
I personaggi: Swordmaster, Totarness e il delirio assoluto
Blade Swordmaster nasce dai miei gameplay di Soul Calibur. Uno che entra in aula con una spada enorme e parla come se fosse uscito da un torneo di duelli medievali (vorrei ricordare: so che esiste un procuratore in Phoenix vs Layton – mai giocato – con la spada, ma Blade nacque molti anni prima di lui). Fu il mio primo vero tentativo di creare un rivale figo, e devo dire che ci ho creduto tantissimo. La sua teatralità, la rabbia contenuta, l’arroganza nobile, ma allo stesso tempo l’idea di renderlo amichevole e un po’ goffo (poiché fan di Super Mario)… ogni battuta è un colpo sferrato (con la spada o con l’ego).
Cruel Totarness, invece, è una mina vagante: manipolatore, mefistofelico, sempre calmo e in controllo. Ha le vibes di uno che ti fa perdere apposta solo per farti impazzire. Non solo non gli importava nulla del verdetto, sembrava divertirsi nel vedere Wolf brancolare nel buio. Ogni mossa, ogni parola, era come se dicesse: “Forza, piccolo avvocato, mostrami quanto vali… se ci riesci.” Occasionalmente, in modo misterioso, fornisce aiuti e direzioni… quasi a voler spingere Wolf nella direzione che vuole lui. E qui era il suo fascino: il mio primo villain importante con motivazioni, passato e identità ambigui e criptici.
Il momento della verità: la ricevuta
Dopo mille giri mentali, una registrazione sabotata, telefoni senza credito e vivavoce tragicomici, alla fine ho deciso che la chiave del caso doveva essere una ricevuta di pagamento.
Una ricevuta scritta da Totarness a Shelly de Killer. Caso chiuso.
Ho costruito il climax attorno a quella singola prova: un pezzo di carta, trovato nella cella del sospettato, che inchioda Totarness e libera Engarde.
E la cosa assurda è che… funziona. Per quanto tutto sembri folle e improvvisato (perché lo era), la tensione in aula è reale. L’illusione regge. Per un motivo.
Totarness, persino nel momento della sconfitta, rimane freddo. Sorride.
Perché non ha perso: ha solo giocato.
Riflessioni: o lo prendi come viene, o ti perdi il bello
Non avevo un piano. Non sapevo se Betty era stata uccisa dal crollo dell’armadio o dalla lama di de Killer (se non ricordo male: Engarde era dietro l’armadio che è caduto, ma è stato de Killer a uccidere Betty – ma potrei sbagliarmi).
Dopo la prima stesura, l’ho riscritto mille volte per dargli un senso. Ma alla fine, quel che conta è che ci ho creduto mentre lo scrivevo.
Questo caso rappresenta il mio primo tentativo di creare qualcosa di più grande. Non solo un mistero, ma un mondo. I personaggi iniziano a uscire dai cliché. Le dinamiche si fanno più tese. Wolf inizia davvero a perdere colpi, a sentirsi inadeguato.
E questo è importante. È qui che si gettano le basi per i casi futuri, per il filone narrativo che arriverà solo dopo, ma che qui inizia a pulsare sotto traccia.
Piccola nota: al tempo della stesura, se ben ricordo ancora non stavo condividendo la storia con nessuno, scrivevo per me.
“La morsa inoppugnabile” è un casino, certo. Ma è un casino sincero. È il caso in cui ho cominciato a esplorare lati oscuri, ambiguità, antagonisti veri.
Non era perfetto. Ma era vivo.
E quando un personaggio ti risponde “okappa” a un verdetto di colpevolezza e distrugge la tua obiezione con un sorriso, capisci che hai creato qualcosa che ti rimarrà dentro.
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