La mia fanfiction su Ace Attorney era un mezzo disastro

Il logo di Justin Shield

Proprio come Gabriele, in passato pure io ho dedicato tempo ed energie a una fanfiction incentrata su Ace Attorney, serie di videogiochi che mi porto nel cuore da quando avevo 15 anni. Tra il 2007 e il 2010 ho portato avanti in modo discontinuo le avventure del giovane avvocato Justin Shield e dei suoi nemici e alleati, senza però arrivare mai a un finale vero e proprio. Se Gabriele ha avuto la pazienza e la costanza di partire da una “semplice” fanfiction e trasformarla poco per volta in un’opera più grande e complessa, io a un certo punto mi sono arreso, lasciando tante storyline senza una conclusione, forse sopraffatto dall’enormità di un progetto del quale, a conti fatti, avevo scritto a malapena il 20% (a essere ottimisti).

Di recente ho provato a rileggere “Justin Shield: Ace Attorney” dall’inizio all’ultimo capitolo pubblicato e ho riscontrato una miriade di problemi che in fase di stesura avevo bellamente ignorato. Per carità, sono passati 15 anni e non mi sembra il caso di essere troppo duro con il me stesso del passato (al quale mancavano ancora parecchie nozioni di scrittura creativa), ma ci tengo comunque a fare un’analisi dei principali punti deboli della fanfiction, anche per mettere in luce le ragioni che hanno portato alla sua interruzione.

Stile di scrittura e dialoghi

Il primo problema che balza all’occhio è lo stile usato, pieno zeppo di parole vuote, avverbi che terminano in “-mente” (dio mio quanto ne abusavo!) e aggettivi del tutto superflui. Le descrizioni sono spesso ridotte all’osso e quelle dei personaggi, incentrate perlopiù sull’abbigliamento, sono così poco ispirate da sembrare delle liste della spesa. Non mancano un discreto numero di svarioni grammaticali, refusi e problemi nell’uso della punteggiatura, che rendono il tutto ancora più brutto da leggere.

I dialoghi sono spesso poco naturali e nei primi capitoli i personaggi tendono a parlare tutti in modo simile, il che appiattisce parecchio gli scambi di battute. La situazione migliora un pochino nel secondo caso con l’introduzione di personaggi più carismatici, tra cui Emily Web, l’assistente di Justin, così esuberante da rendere impossibile scambiare le sue dichiarazioni per quelle di qualcun altro.

Emily Web
Emily Web

I duelli verbali in tribunale restano però parecchio farraginosi, con tanti ragionamenti ripetuti fino alla nausea e frasi che sembrano uscite da un copione teatrale poco ispirato. Ci tengo però a dare a Cesare quel che è di Cesare: i siparietti comici funzionano abbastanza bene anche ad anni di distanza e rileggere i dialoghi di Albert Atom (un professore di chimica folle che ama il potassio e le esplosioni tanto quanto detesta lo zinco) mi ha fatto ridere.

Il primo caso: pigrizia creativa allo stato puro

La gestione dei casi è il più grosso punto debole di “Justin Shield: Ace Attorney”. La fanfiction si apre con un primo processo poco interessante, nel quale i misteri introdotti vengono risolti in modo pigro e i personaggi hanno lo spessore di un foglio di carta velina. Le contraddizioni presenti nelle testimonianze sono ovvie (e tutt’altro che originali), il procuratore Payne è fin troppo competente e Justin entra in tribunale senza uno straccio di prova a sua disposizione, il che rende prive di forza quasi tutte le sue teorie iniziali. Pure i casi più semplici possono rivelarsi divertenti, soprattutto quando vengono usati per mettere in scena delle idee fuori dagli schemi o approfondire i personaggi principali, ma qui manca davvero qualsiasi guizzo creativo. Justin si comporta come un clone di Phoenix Wright privo del carisma dell’originale e i testimoni non hanno nessuna caratteristica in grado di farli spiccare. L’unico personaggio un pochino interessante è Kogoro Odaki, il mentore del protagonista, che però in questo primo caso ha modo di mostrare solo una piccola parte della sua personalità.

Kogoro Odaki

La scelta di ambientare il caso in un poligono di tiro non è male, soprattutto perché è un luogo in cui udire il suono prodotto da uno sparo è del tutto normale, ma con il senno di poi devo ammettere che avrei potuto sfruttarla molto meglio. Per esempio, i colpevoli avrebbero potuto far finire il cadavere della vittima davanti al bersaglio dell’imputato, Ren Anderson, portandolo a credere di essere stato lui a causarne la morte. Invece si limitano ad addormentarlo con il cloroformio e a indossare i suoi vestiti per creare una (maldestra) prova fotografica in grado di incastrarlo. Pure il movente è poco originale: ricordo di aver preso ispirazione da un caso di Detective Conan nel quale un medico causava per sbaglio la morte di una paziente e poi si faceva beccare a ridere del suo errore da uno dei parenti della donna.

Il secondo caso: un brodo saporito ma troppo annacquato

A differenza del primo caso, il secondo è molto meno pigro e propone delle dinamiche più interessanti, ma soffre a causa di un altro problema: l’eccessiva lunghezza. Ci sono tanti capitoli nei quali succede davvero poco, con i personaggi che si limitano a ripetere informazioni già note al lettore (ok che quel che si scopre durante l’indagine dev’essere in qualche modo reintrodotto durante il processo, ma non possono volerci le ere geologiche!), oltre a complicazioni della trama delle quali si poteva fare a meno. Con delle sforbiciate tattiche si potrebbe passare da 30 capitoli a 25 (o anche meno) senza perdere nulla di importante per strada e il tutto diventerebbe più fruibile.

Il tentativo di osare di più è apprezzabile – soprattutto dopo la calma piatta del primo caso – però alcune questioni complesse sono trattate con una superficialità imbarazzante. Temi delicati come la pedofilia, il gioco d’azzardo e il doping vengono introdotti nella trama quasi con noncuranza, affidando al giudice o a qualche altro personaggio saggio il compito di ricordare ai lettori la gravità di certe azioni. E so bene che l’intenzione del me stesso del 2009/2010 non era certo quella di essere superficiale o sbrigativo, però la mancanza di profondità di certi passaggi rimane comunque un dato di fatto. In generale, tutti i momenti che dovrebbero essere tesi o emozionanti avrebbero potuto essere costruiti in modo più efficace e lo stile di scrittura acerbo non aiuta a esaltarli.

Pure per quanto riguarda i personaggi c’è un discreto passo avanti rispetto al primo caso. Oltre alla già citata Emily Web, assistente ancora più iperattiva e caotica di quelle solitamente presenti negli Ace Attorney, mi sembra giusto menzionare anche Amy Shyheart, detective così invaghita di un certo procuratore da riuscire a stento a fare una testimonianza coerente in sua presenza, e Natalie Eliatan, una fotografa con poco riguardo per la privacy altrui che però non esita a mettere a disposizione le sue abilità e i suoi agganci per il bene della giustizia.

Uno spazio a parte lo devo necessariamente dedicare ad Alexander Byrgas, il procuratore principale della fanfiction (anche se a conti fatti sono riuscito a inserirlo in questo ruolo solo nel secondo caso). Sotto certi punti di vista è una versione più estrema di Klavier Gavin: nutre una grande passione per la musica metal e l’abbigliamento che usa un tribunale non stonerebbe a un concerto dei Gojira, apprezza gli alcolici e non sembra troppo interessato a rispettare il codice della strada.

Alexander Byrgas

Proprio come il frontman dei Gavinners, in tribunale è più interessato a raggiungere la verità assieme alla difesa che a vincere e non mostra atteggiamenti troppo ostili nei confronti di Justin. A renderlo un po’ diverso dagli altri procuratori ci pensano le strategie che tira fuori dal cilindro, talvolta fuori dagli schemi: durante il secondo caso, per esempio, decide di provare a indagare sulla possibile esistenza di un complice nella speranza di trovare nuovi indizi utili per smascherare il colpevole.

Alexander è un personaggio al quale sono abbastanza affezionato (dopotutto era un mezzo self insert), ma devo ammettere che con il senno di poi avrei potuto fare di più per renderlo un rivale degno di notta. Se dovessi modificarlo ora, penso che cercherei di inserire degli attriti tra lui e Justin, per esempio rendendo Alexander un grande detrattore di Kogoro Odaki. L’anziano avvocato ha abbastanza scheletri nell’armadio da rendere plausibile che un procuratore con qualche anno di esperienza alle spalle si approcci con diffidenza al suo unico allievo. Inoltre, calcherei un po’ più la mano sulla tendenza di Alexander di usare l’alcool, i concerti e persino i processi come modi per tenere la mente occupata. Il suo passato non è roseo e rappresentarlo come un uomo spezzato e in parte disilluso avrebbe senso.

Il terzo caso: fanservice abbastanza ben fatto

Nelle mie intenzioni, il terzo caso avrebbe dovuto narrare parte della storia di Alexander, concentrandosi soprattutto sul suo primo incontro con Phoenix Wright, cruciale per la sua decisione di diventare un avvocato difensore (ebbene sì, proprio come Godot pure lui a un certo punto ha cambiato carriera). Si tratta di un flashback narrato dal punto di vista dell’avvocato dai capelli a punta, nel quale fanno il loro ritorno personaggi amati dai fan come Miles Edgeworth e Franziska Von Karma. Quest’ultima subisce un’evoluzione potenzialmente interessante, gestita però in maniera fin troppo frettolosa, e ha un paio di scene abbastanza intense con Adrian Andrews, personaggio con il quale la “shippo” da ormai parecchi anni.

Franziska Von Karma

Come avrete potuto intuire, questo terzo caso abbonda di fanservice, ma non lo considero un grosso difetto, perché dopotutto le fanfiction nascono in primo luogo per condividere la propria passione con altri appassionati. I veri problemi sono altri, come la scelta di far perdere i sensi ad Alexander dopo l’omicidio del quale viene accusato (e che cavolo, è il terzo imputato di fila che viene trovato svenuto sulla scena del crimine!), i momenti OOC di Franziska e la scelta assurda di far sbavare Phoenix dietro a una liceale (c’erano altri modi per trasmettere la sua avvenenza al lettore, ma evidentemente in quel periodo avevo gli ormoni impazziti lol).

I lati positivi sono una miglior gestione del ritmo rispetto al terzo caso, la presenza di scene divertenti e un uso dei personaggi “presi in prestito da Shu Takumi” abbastanza ben pensato. In alcune parti del caso Franziska, Edgeworth e Phoenix si comportano proprio come farebbero nei videogiochi della serie, il che dimostra che già 15 anni fa avevo una buona capacità di analisi.

A differenza dei primi due casi, il terzo non è mai stato completato, quindi è un po’ più difficile da giudicare.

Un’opera lasciata a metà

A pensarci bene, non ricordo di aver mai deciso in modo consapevole di abbandonare Justin Shield. Penso di averla considerata “in pausa” fino a quando non è passato troppo tempo dall’ultimo aggiornamento da rendere impensabile riprenderla in mano. Ci sono varie cause dietro al fallimento della fanfiction, ma credo che la più grossa sia l’assenza di una pianificazione meticolosa, che avrebbe senz’altro reso più facile evitare i problemi di ritmo. Pure l’ambizione di creare una storia lunghissima e piena di casi non ha aiutato, soprattutto perché ha reso il progetto sempre più simile a una montagna troppo alta da scalare. A volte è meglio contenersi in un primo momento per poi eventualmente espandere in un secondo momento l’universo narrativo che si è creato.

Ricordo che all’abbandono di Justin Shield contribuirono anche delle cause esterne, come il rapporto difficoltoso con gli ultimi anni del liceo e alcuni trambusti interni al forum sul quale la storia veniva pubblicata, nel quale non c’era più l’atmosfera spensierata dei primi anni.

La tendenza a inseguire il materiale originale

C’è un problema che accomuna un po’ tutte le fanfiction legate a una fonte diversa da un libro: chi le scrive cerca di far funzionare sulla pagina espedienti che funzionano solo in un media diverso (o perlomeno era così in quel periodo, ora non saprei). Le opere ispirate ad Ace Attorney si aprono spesso con il “caso tutorial”, ma a conti fatti non ce ne sarebbe alcun bisogno. A una fanfiction basata sul mondo di Phoenix Wright si approccia solo chi ha già giocato ai videogiochi, quindi non serve proprio a nulla introdurre da zero il sistema legale. Si tende a farlo solo per seguire una tradizione. Lo stesso vale per il superpotere dell’avvocato protagonista. Pure Justin Shield ne ha uno ed è gestito malissimo. In pratica consiste nel capire se una persona mente o meno solo guardandola negli occhi, un po’ come fa Apollo Justice nel suo gioco di debutto con i tic nervosi.

Il potere di Apollo Justice

L’idea non solo è poco originale, ma anche inserita a casaccio, senza uno straccio di spiegazione sull’origine dell’abilità di Justin o sul suo funzionamento. Il potere è un elemento così superfluo che nel secondo caso viene fatto sparire in modo rocambolesco e la storia non ne risente neanche un po’.

Quindi è tutto da buttare?

In questo articolo mi sono divertito a demolire una mia vecchia opera, ma in tutta onestà non sono affatto pentito di aver scritto Justin Shield. È una fanfiction che, nel bene e nel male, mi ha insegnato molto sulla scrittura, oltre a permettermi di stringere dei legami con altri appassionati di Ace Attorney e vivere in modo ancora più intenso la mia passione per la saga di Phoenix Wright. Mi dispiace non essere mai riuscito a dare il giusto epilogo a Justin, Alexander, Emily, Kogoro e tutti gli altri, ma forse è meglio così, probabilmente 15 anni fa non sarei riuscito a rendere giustizia alle storyline che avevo in mente per loro. Ora l’abilità per farlo ce l’avrei, però preferisco concentrarmi sulle mie storie originali. Dopo aver creato degli universi narrativi da zero, penso che farei fatica a tornare a scrivere fanfiction.

(Se volete dare un’occhiata di persona alla fanfiction, potete trovarla QUI)

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Autore: Alessandro Bolzani

Mi chiamo Alessandro e, oltre a essere un giornalista, sono l’autore del libro urban fantasy Cronache dei Mondi Connessi – I difensori del parco, edito da PAV Edizioni. Nel 2023 ho vinto il concorso Sogni di Fantasy 2 con il racconto Sylenelle, ladra di sogni. Collaboro anche con la rivista Weirdbreed, per la quale ho realizzato il racconto La carne più buona del mondo, alcuni articoli e delle interviste. Nel mio blog, Pillole di Folklore e Scrittura, parlo di libri, scrittura creativa, mitologia, credenze popolari e, in generale, di tutto ciò che mi appassiona.

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