Alla scoperta della “Scienza del Male” ft. dr. Yuri Ciro Mennella

Salve a tutti! In questo nuovo articolo d’intervista, il dr. Yuri Ciro Mennella, laureato in Sociologia e Criminologia con Master in Scienze Forensi presso Università di Roma La Sapienza, si è proposto di partecipare a un’intervista a riguardo di questa disciplina.

Iniziamo pure, dunque!
Ciao Yuri, e grazie per aver deciso di partecipare a quest’intervista e di condividere le tue conoscenze.
Vorrei anzitutto chiederti: cosa ti ha spinto a studiare Sociologia e Criminologia? E cosa ti ha appassionato di più del tuo percorso di studi?

Ciao Gabriele, e grazie a te per avermi dato questa possibilità.
Sono una persona molto fatalista, che crede nel destino. Quindi ritengo che tutto nasca per caso: ogni tipo di azione, di idea, nascono dal nulla.
La stessa cosa nasce per quanto riguarda la scelta del mio percorso universitario. Non sono mai stato appassionato di serie tv come CSI.
Volevo fare un’esperienza di vita nuova e diversa all’esterno di Nettuno, dove vivo.
Gli studi di Sociologia e Criminologia sono particolari nelle loro modalità, perché sono un corso nuovo. Prima era Scienze dell’Investigazione, in seguito è “translato”.
Si tratta di studi “variegati”: non vengono messi al centro Diritto, Sociologia o Criminologia. Ci si può appassionare a ciò che si sente più vicino.
Ho amato sia i primi tre anni di università, che gli ultimi due. Infine, il master in Scienze Forensi ha “chiuso il cerchio”.

Affrontando la revisione, l’editing e la traduzione (verso la lingua inglese) del tuo saggio, “Alla scoperta della scienza del Male“, mi chiedevo se ci fossero teorie, casi e/o fatti, sulla Criminologia, che ti hanno colpito personalmente e che vorresti brevemente esporre nella presente intervista. A me, per esempio, ha intrigato tantissimo leggere del “Rhythm-0” condotto da Marina Abramović.


Anzitutto ti ringrazio di cuore per la traduzione che hai effettuato con così tanta meticolosità, passione e interesse.
Il saggio nasce come una tesi scomposta, affrontata prima in magistrale e poi nel master, quindi come insieme di due lavori.
Interessante è lo studio condotto sul cervello umano: entriamo a gamba tesa nel processo neurologico.
Uno degli eventi che mi ha appassionato particolarmente è stato un caso negli Stati Uniti, dove un signore di buona famiglia, da un giorno all’altro, inizia a molestare sessualmente la sua figliastra.
Viene denunciato da lei e poi dalla moglie.
Tre giorni prima del processo, soffre per un’emicrania e viene dunque ricoverato.
Il tumore “spingeva” su quella che era la parte decisionale dell’uomo.
Quindi, per la prima volta, viene lasciata cadere, in tribunale, un’accusa per via di motivazioni biologiche e neurologiche.
La particolarità è che, nella parte decisionale dell’uomo, c’era una sorta di “processo esterno” che “andava a decidere” per lui.
Questo ha rappresentato un enorme passo avanti per la Criminologia, per quanto concerne gli approcci moderni neurologici e biologici.

Dopo aver studiato Criminologia, credi che alcune persone siano “destinate dalla nascita” a diventare criminali, o si tratta più di un discorso di “nature vs nurture” (natura contro cultura), o ancora di entrambe le cose?

Cito un bellissimo libro, “Il codice dell’anima” di Hillman.
Secondo Hillman, la nostra nascita ruota attorno a dei fattori, ovvero ciò che lui chiama la “teoria della ghianda“: tutti noi nasciamo come ghiande e diventiamo querce, come dei grandi progetti derivati da qualcosa, destinati a diventare quel qualcosa (chi nasce calciatore, chi poeta).
Seguendo quest’ottica, i criminali nascono tali, ma non me la sento di dire che qualcuno “nasca criminale”, anche perché gli studi fatti col tempo ci dicono che le scelte fatte l’uomo hanno un impatto importante.
La società ha un impatto.
L’uomo nasce all’interno di una realtà: avere determinate particolarità INVECE che altre significa avere altre possibilità, fondamentali per le scelte future dell’uomo stesso.
Tutto ruota intorno a casistiche, e determinate volontà.
Particolare è un caso descritto in “Anatomia della Violenza” di Adrian Raine: il caso di un ragazzo di quasi 2 metri (per 130 kg) accusato di uno stupro.
Attraverso delle ricerche, sono state riscontrate delle malformazioni craniche che spingevano sull’area della facoltà.
Da piccolo, questo ragazzo veniva costantemente picchiato.
La madre lo picchiò con un ferro da stiro provocandogli la malformazione.
Si può pensare che in una famiglia agiata il ragazzo non sarebbe divenuto stupratore.
Ma questo tipo di ragionamento de-responsabilizza l’individuo.
Ogni individuo ha una certa “praticità” nel processo, una certa “vita”.
Quindi, tornando alla tua domanda, Gabriele, mi sento di rispondere sì al 50% per quanto riguarda gli approcci naturali, sia quelli culturali.
Questo non toglie che persone di alti ranghi non abbiano commesso omicidi, o reati.
Importante è la teoria di Edwin Sutherland sui colletti bianchi, cioè i reati commessi da alti ranghi.
Sono reati più tollerati e “apprezzabili”: non ci toccano personalmente (come la bancarotta), sono lontani dalla realtà.
Se un omicidio è meno tollerato perché ha una sua crudeltà e un suo processo decisionale diverso, per i colletti bianchi non lo è.

Basandoti anche sui tuoi studi, pensi che un detenuto, alla scarcerazione, abbia davvero la possibilità di tornare a vivere con occhi diversi? I percorsi psicologici e/o spirituali possono essere d’aiuto al detenuto in questione, in tal caso? Pensi che la fede in Dio possa aiutare?

Secondo me non esiste carcere senza un processo riabilitativo.
Vuol dire che, se non si parte dalla riabilitazione e QUINDI dal reinserimento nella società, il carcere non avrebbe senso.
Un obiettivo importante è il dopo, quindi anche il durante.
Il durante fa comprendere alle persone che viviamo un paese estremamente all’avanguardia, dove la legge del taglione non serve a nessuno.
Si può sbagliare e si deve pagare soprattutto se si è recato un danno all’altro. Qui entriamo in un’elasticità mentale diversa.
Per essere criminologi bisogna abbandonare il processo personale e si entra nel processo empatico.
Anche se delle persone hanno recato un danno, sono comunque esseri umani.
Chi parla di pena di morte deve comprendere che abbiamo abbandonato il Medioevo, le guerre territoriali. Siamo un paese democratico.
Bisogna comprendere che esiste un bisogno di umanità, di un bisogno continuo di umanità.
Sono una persona estremamente credente, però non ritengo che quella che è la presenza di Dio entri in gioco nel processo riabilitativo/carcerario.
Non ho elementi per sapere se la fede possa aiutare queste persone.
Bisogna comprendere che non siamo fatti tutti alla stessa maniera, assolutamente. Non possiamo neanche pensare di crederlo.
Quello che possiamo fare è immedesimarsi in ciò che avviene, essere virtuosi.
Tutti noi possiamo avere uno scatto d’ira e dare una coltellata. In natura lo si è dimostrato.
Ma bisogna comprendere che siamo ovviamente persone, non animali.
Per quanto riguarda i processi riabilitativi interni, varia da paese a paese.
La figura preposta è sicuramente lo psichiatra che stabilisce se c’è una possibilità di integro, o di non reintegro. In alcuni casi non è possibile.

Cosa ne pensi dell’influenza dei media e dei giornali nei casi investigativi (per esempio, degli esperti televisivi che cambiano spesso idea sui fatti)?


Io sono contrario ai programmi che parlano di reati. Sono contrario perché, fino all’ultimo grado di giudizio, non è possibile dare una spiegazione importante.
Mostrare un reato in tv significa effettuare una “legge del taglione 2.0”. Ovvero un processo televisivo che non giova a nessuno. Significa indispettire l’opinione pubblica, schierarsi da una determinata parte.
Tutte le persone che parlano in tv non hanno una visione a 360° di ciò di cui si parla, perché tutte le carte non possono essere rese note. Quindi quelle persone non hanno una visione totalitaria e completa.
Ne parlavo l’altra sera con la mia fidanzata. Per esempio, nel 2020 con il coronavirus si sentono molteplici “campane”, senza arrivare a una soluzione completa. Andare a criticare qualcosa senza avere una soluzione porta solo a creare confusione.
Far parlare 50 virologi o investigatori su un determinato caso crea confusione e non porta al nulla.
Con questo processo si va a “incattivire” la popolazione nei confronti di una determina persona.
Per riagganciarsi alla domanda sul processo riabilitativo, non si permette all’individuo di integrarsi dopo all’interno della società: verrà sempre, in qualche maniera, indicato come autore di quel caso, anche se innocente e assolto.
Si cerca sempre e continuamente la “pecora nera”, il colpevole.
In quei casi dove non c’è l’autore, si cerca di incolpare qualcuno. Che quel qualcuno ci sia non c’è dubbio. Ma bisogna in qualche maniera iniziare a comprendere che la “spasmodicità” nel cercare qualcuno da accusare può danneggiare CHIUNQUE da questo punto di vista.
Bisogna iniziare ad avere una visione diversa del modo di fare.
Non è detto che ci sia bisogno CONTINUAMENTE del capro espiatorio.
È un cambiamento che bisogna fare. Che si deve cercare di fare. Perché siamo nel 2020 e abbiamo la cultura per farlo. Bisogna farlo.

Pensi dunque che sia “facile” fare del male?

Il caso di Marina Abramović è imponente nella sua struttura e soprattutto fa comprendere appieno cosa sia l’umanità.
Spesso succede che ci immaginiamo che un atto di violenza sia molto esterno a noi, lontano da noi. Non è esattamente così.
Lo dimostrano questo esperimento e tanti altri, nella loro totalità.
Il caso di Marina Abramović è segnante e vero.
Ci fa capire appieno cosa significhi ferire qualcuno, e quanto sia facile. Nel momento in cui si parla di “ferire qualcuno” non si parla, solo, di aggredire qualcuno da un punto di vista fisico, ma anche morale.
Ferire qualcuno da questo punto di vista può essere fatto quotidianamente.
Prendiamo ad esempio un fidanzato. Lui decide di lasciare la propria fidanzata. Che succede? Varia a seconda della modalità.
Nessuno dice che una persona deve rimanere a vita con qualcun altro. Però bisogna capire che esistono diverse modalità per farlo.
Il caso è perfetto da questo punto di vista, particolare nelle sue modalità.
Marina Abramović, artista contemporanea importantissima, decide di fare un esperimento a Napoli.
Si siede su una sedia. Davanti a lei c’è un tavolone con degli oggetti molto particolari (armi, piume, coperte, cuscini), con una scritta che riporta che, attraverso questi oggetti, si poteva fare qualsiasi cosa all’artista.
Le persone erano inizialmente intimorite. Chi si avvicinava con una piuma, chi con un cuscino, solo per sfiorare l’artista.
Dopo un’ora e mezza, si degenera. Le persone iniziano a colpire la donna con i pugni, con delle catene, con delle fruste.
Tre ore dopo l’esperimento si conclude (era programmato per intera giornata). Questo perché una persona caricò una pistola e la puntò alla tempia dell’artista.
La donna era molto sicura che sarebbe successo ciò: disse che “è la natura umana essere violenta”.
Questo viene dimostrato all’interno di un esperimento importante, anche oggetto di film, chiamato “effetto Lucifero” di Zimbardo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, vennero effettuati degli esperimenti sull’obbedienza, sull’obbedire al Führer. Zimbardo condusse uno di questi esperimenti nell’Università di Stanford.
Vennero scelte delle persone attraverso dei colloqui e gli vennero dati ruoli differenti: 12 detenuti e 12 carcerieri.
L’idea era quella di farli immedesimare all’interno della struttura.
L’esperimento venne interrotto dopo tre giorni, quando avrebbe dovuto durare più a lungo.
Questo perché le persone si immedesimarono in carcerieri ed esercitarono violenze, stupri e aggressioni sui carcerati.
Tutte le persone messe dinanzi a un determinato atto violento e che acquisiscono un minimo di potere sono pronte a provocare violenza e a usare quel potere.
Molto determinante è uno dei testi più belli che io abbia letto: stiamo parlando de “La banalità del male” di Hannah Arendt.
È una pietra miliare. Arendt assistette al processo del funzionario tedesco Eichmann, dove lui affermò di aver “semplicemente” obbedito alle direttive di Hitler.
Fare del male non è complicato, non è difficile.
Fare del male è forse una delle cose più semplici che l’uomo possa fare, perché alcune volte lui lo fa senza scrupolo, senza pensarci.
È proprio un concetto di vita.
Abbiamo perso il contatto non con la realtà, ma con l’essere umano, non come persona, ma come “umanità”.
A volte perdiamo l’essere “umani”. Questo è un grave danno perché potremmo ferire, in maniera anche banale come dice Arendt, il nostro partner o chiunque ci sia vicino. Non ce lo possiamo permettere.
Fare del male. Spesso questa parola ce la dimentichiamo perché si perde il concetto di “umanità”.

Nel tuo saggio, hai disegnato alcune parti del corpo, associandole a concetti di Criminologia. A seguire alcuni di questi disegni.

Ti va di approfondire questa rappresentazione, e il ragionamento che hai condotto?

Sono un amante delle cose semplici, perché così ritengo sia la vita: l’amore, il rapporto con le persone, è quello che mi ha insegnato anche il mio corso di laurea.
Quello che ho disegnato da questo punto di vista, grazie a un mio amico (cito: Vittorio Giorgi) è stato cercare di disegnare delle parti del corpo che rappresentassero le materie che si affiancano alla Criminologia.
Dire che la Criminologia nasce come una materia pluridisciplinare significa che ha fondamenta basate su altre materie.
Nel saggio (che si spera esca tra un po’) si parla del fatto che ogni parte del corpo sia associabile a una determinata materia.
La religione è rappresentata dalle “mani”, la Sociologia è la struttura ossea. L’Antropologia è il volto del Male. Infatti a una persona viene spesso associata la frase “faccia da criminale”, anche se è limitativa.
Gli organi perché il Male nasce dall’interno, quindi la Biologia. Il cervello è la Neurologia.
Ho voluto fare ciò per rappresentare al meglio l’essere umano, perché non sappiamo se il Bene e il Male esistano davvero. Siamo convinti che nascano dall’uomo. Sappiamo che sono parti fondanti dell’uomo e del suo corpo.
Talvolta, le idee o le conclusioni delle discipline trattate potrebbero risultare deliranti, paradossali o ancor peggio, inconcludenti.
Già che ci siano temi di discussione, di dibattito, di analisi risulterà essere molto positivo, in maniera da tenere “vivo” l’interesse nei confronti di una problematica e non tornare in quella fase buia dove le tematiche, tra cui il Male, venivano declassate con la frase: “si sa senza il bisogno di dirlo”.
Il Male e il Bene esistono, nella stessa misura in cui esistono uomini e donne.

Ti ringrazio per la preziosa testimonianza, Yuri. Ho trovato le risposte e l’argomento in sé veramente affascinanti.

Autore: Gabriele Glinni

Dottore in Mediazione Linguistica con riguardo verso la traduzione specialistica. Amante della scrittura creativa e autore del romanzo Ascend-ent. Sostenitore dell'arte della composizione di messaggi efficaci ed eloquenti.

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