Diamanti (2024) è l’ultimo film di Ferzan Özpetec e ha generato opinioni contrastanti, grandi elogi e severe critiche. Sicuramente è un film atipico, che non si sviluppa intorno a una trama classica ma segue le vicissitudini di una moltitudine di personaggi meno approfonditi di quanto ci si aspettasse e senza che svettino dei veri e propri protagonisti. La storia, nonostante ciò, non è confusionaria e non annoia, anche se non regala un vero finale. In controtendenza, il femminile rappresentato non è sempre perfetto, capace o desideroso di nascondere con trucco e parrucco le proprie imperfezioni estetiche, la stanchezza e l’angoscia; in contrapposizione ci vengono mostrati nello spazio della sartoria degli uomini-oggetto, giovani accondiscendenti e di bell’aspetto.
Gli abiti realizzati dalle sarte per il film d’epoca a cui stanno lavorando non corrispondono allo stereotipo settecentesco. I costumi hanno il compito di interpretare il ruolo tanto quanto le attrici che li indossano, siano esse le celebri interpreti vestite dall’atelier o i personaggi stessi della storia. Così, quando Gabriella fugge dalla sartoria, anche l’abito parla della sua fragilità: di spalle sembra una bambina.
Diamanti è un esempio di metanarrazione e in parte un documentario sul processo creativo alla base di una produzione cinematografica, dall’attribuzione dei ruoli e agli imprevisti al confezionamento degli abiti di scena. Una pellicola su come il miscuglio di ricordo, realtà e sogno creino una storia. Il bambino alter ego del regista suggerisce che la trama sia una ricostruzione di ciò che l’autore ha visto, sentito e immaginato da piccolo, con rivisitazioni fantastiche tipiche dell’infanzia: il cattivo che finisce nel pozzo, la ragazza che come in una favola riceve le lodi di un premio Oscar, il lieto fine di solidarietà e riconciliazione nell’aiuto fornito per rifare il vestito da capo e nella stima reciproca mostrata dalle star rivali vestite dall’atelier. Nel pesciolino portafortuna mostrato dal bambino/autore c’è il ricordo di una donna altrimenti dimenticata, una vita comune di compromessi, mentre realtà e sogno si fondono nella street art contemporanea sui muri poco distanti dell’atelier che dovrebbe rappresentare gli anni ’70.
Camilla
purtroppo, il problema sorge quando vuole uscire dalla coralità, mostrando episodi sporadici di vite private mai approfondite, scene madri il cui dramma non è stato prima costruito; troppe invasioni da parte del registe che spezzano la narrazione
poi concordo, film molto bello e bellissimamente metacinematografico, adoro i film su stilisti e autori^^
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esatto, è un po’ slegato
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