Rivali contraltari, non rivali idioti – il caso di Sonic e Shadow

C’è una piaga che affligge le storie di rivalità: si chiama “odio sterile”. Avete presente quei personaggi che si urlano addosso, si insultano con frasi prese da una telenovela degli anni ‘90 e sembrano più impegnati a farsi le pulci che a far avanzare la trama? Ecco. Oggi vogliamo parlare di come evitare quella trappola quando si scrivono rivali contraltari, prendendo a modello una delle coppie più iconiche (narrativamente parlando): Sonic e Shadow.

Perché sì, c’è una differenza abissale tra “essere rivali” e “odiarsi per sport”. E una buona rivalità, ben scritta, può elevare una storia da “meh” a “meravigliosa” (vedi scrittura di Shadow in Sonic Boom vs scrittura di Shadow in Sonic 06). Quindi parliamone.

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Il protagonista che non dice tutto (anche a te): costruire un personaggio riservato – il (secondo) caso di Phoenix Wright

Beh, un’altra analisi per lo stesso personaggio, ma guarda un po’!

Phoenix Wright non è l’angelo di porcellana che molti si ostinano a dipingere. È un bugiardo selettivo, un ironico silenzioso che ti offre un sorriso educato mentre dentro di sé esprime giudizi su tutto e tutti. Eppure, proprio questa dicotomia è ciò che lo rende uno dei protagonisti più riusciti e longevi nel panorama videoludico e narrativo.

Quindi, se anche tu vuoi creare un personaggio riservato che funzioni — non uno di quei figuranti piatti che “parla poco perché è misterioso” (à la Sasuke) ma di fatto non ha nulla da dire — allora mettiti comodo. Analizziamo insieme la lezione di scrittura dietro il buon Phoenix e vediamo come non farti sgamare dal lettore mentre tessi trame di segreti e allusioni.

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Come resuscitare un personaggio dopo averlo distrutto – il caso di Shadow the Hedgehog

C’è una forma d’arte sottovalutata nell’universo narrativo: la resurrezione dignitosa. No, non stiamo parlando di zombie, reboot confusi o di quel momento in cui un personaggio torna dal nulla con più muscoli e meno cervello. Parliamo di far rinascere un personaggio a livello narrativo, riportandolo alla gloria dopo anni di scrittura pigra e svilente. E se c’è un personaggio che incarna perfettamente questo viaggio tra gloria, oblio e redenzione, è Shadow the Hedgehog (che, non smetterò mai di dirlo, è il mio personaggio preferito in qualsiasi media narrativo, quindi questo articolo è a lui dedicato con il cuore).

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Da casalinga a sadica: come flanderizzare un personaggio fino a distruggerlo – Il caso di Lois Griffin

C’è un’arte sottile nel costruire un personaggio complesso. E poi c’è Family Guy, che ha deciso di prendere un personaggio come Lois Griffin e buttarla in un frullatore narrativo, premendo il tasto “MAXIMUM STEREOTYPE” senza pensarci due volte.

Lois Griffin è l’esempio perfetto di come un personaggio inizialmente normale – anzi, vagamente interessante nel suo ruolo di madre amorevole e moralmente solida, in contrapposizione con Peter – possa diventare una caricatura grottesca di se stesso. E non stiamo parlando di evoluzione del personaggio. No, qui parliamo di flanderizzazione pura.

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Il fantasma nella macchina narrativa – Il caso di W. D. Gaster

Nel mondo della narrativa, esistono personaggi che entrano in scena con fanfare, luci, effetti speciali e monologhi infiniti. E poi ci sono loro: i fantasmi. Non nel senso paranormale, ma nel senso più subdolo, inquietante e affascinante possibile. Parliamo di quei personaggi che non appaiono mai, di cui si parla appena sussurrando, e che proprio per questo finiscono per diventare le figure più iconiche dell’intera opera.

Un esempio perfetto? W. D. Gaster, direttamente da Undertale, il capolavoro indie che ha riscritto le regole dei giochi di ruolo con un motore grafico fermo al 1994 e una scrittura più tagliente di un coltello da cucina giapponese.

Gaster non compare mai — o meglio, compare solo in condizioni estremamente rare, tramite glitch, NPC dimenticati in angoli remoti o stanze che sembrano costruite apposta per farti domandare se hai davvero visto quello che hai visto. Eppure, è ovunque. È nel codice, è nella lore, è nelle teorie. È Schrödinger in pixel art.

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La trama che non c’era (o forse sì): il genio della scrittura “per omissione” di Five Nights at Freddy’s

Quando Five Nights at Freddy’s uscì nel 2014, sembrava solo l’ennesimo indie horror con jumpscare a buon mercato. Animatronics inquietanti, luci che si spengono da sole, rumori strani in corridoio… tutto nella norma. Ma poi i fan hanno iniziato a scavare. E scavando, hanno trovato qualcosa. O meglio: hanno iniziato a sospettare che forse ci fosse qualcosa da trovare.

Perché sì, FNAF non ha mai raccontato una trama nel senso tradizionale del termine. Nessun filmato introduttivo epico, nessuna voce narrante a spiegare cosa diamine stia succedendo. Al suo posto, un tizio che deve sbarcare il lunario, registrazioni vagamente minacciose, disegni infantili appesi alle pareti e minigiochi 8-bit con coniglietti che fanno cose strane. Un puzzle sparpagliato, fatto di pixel e paranoia.

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Power creep e altri crimini narrativi: perché i personaggi meritano di più

Nel mondo della narrativa seriale, c’è una malattia silenziosa che colpisce anche le migliori saghe: si chiama power creep. È subdola, è letale, e ha fatto più vittime di Freezer al raduno annuale dei Namecciani. Non parliamo solo di personaggi: parliamo di rilevanza narrativa, di equilibri distrutti e di protagonisti che diventano semidei mentre i loro amici… beh, restano a casa a guardare.

Chiariamolo subito: il power creep è quel fenomeno per cui i personaggi devono diventare sempre più forti per restare interessanti. Ma a che prezzo? A quello di lasciare indietro personaggi adorati, relegati al ruolo di cheerleader con le braccia incrociate. Krillin, Yamcha, Tien, Sakura… se state leggendo questo, vi vediamo e vi vogliamo bene.

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Come reinventare un universo narrativo già concluso tramite un nuovo personaggio: il caso di Beerus

Pensavamo fosse finita. Goku aveva raggiunto il Super Saiyan di livello 3, sconfitto Majin Buu, riportato la pace nell’universo e, tutto sommato, anche imparato a fare il padre. I fan erano sazi (forse), i villain sconfitti, e Akira Toriyama pareva pronto a ritirare penna e pennello. Poi, dal nulla cosmico, arriva lui: un gatto viola con la pancia gonfia, l’umore instabile e il potere di vaporizzare pianeti con uno starnuto.

Beerus.

Sì, proprio Beerus: il Dio della Distruzione, introdotto decenni dopo che l’universo di Dragon Ball sembrava avere esaurito ogni carta. Eppure, anziché sentirsi come un’aggiunta forzata o fuori luogo, Beerus riesce a inserirsi perfettamente nella mitologia della saga, spalancando porte che nemmeno sapevamo esistessero. Come ha fatto Toriyama a compiere questa magia narrativa? Scopriamolo.

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Come scrivere un villain megalomane, irresistibile e inarrestabile: il caso del dottor Eggman

Nell’universo narrativo, poche figure risplendono con la stessa assurda, esagerata e affascinante brillantezza del villain egomaniaco. Tra questi, il Dottor Ivo “Eggman” Robotnik è uno degli esempi più lampanti e duraturi: genio del male, costruttore di robot dalla dubbia efficienza ma dallo stile inconfondibile, eterno rivale di Sonic the Hedgehog. Dietro la sua buffa silhouette e i suoi baffoni inconfondibili, si cela uno dei villain più emblematici della narrativa videoludica. Ma perché funziona così bene? E soprattutto: come si scrive un villain come lui?

In questo articolo cercheremo di rispondere a queste domande esplorando cosa rende il villain egomaniaco credibile, divertente e narrativamente potente. Concluderemo analizzando il caso esemplare del dottor Eggman, un personaggio che, nonostante mille sconfitte, riesce sempre a rientrare in scena, fedele alle sue folli convinzioni.

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Empatia e colpa: il thriller morale, il caso di Acro e Ini Miney

Nel mondo del thriller giudiziario, pochi elementi sono così affascinanti e narrativamente complessi come il colpevole simpatetico. Non basta che l’assassino sia “comprensibile”: dev’essere umano. Deve incarnare un conflitto morale che il pubblico può non solo comprendere, ma anche sentire. È questa la chiave che rende la serie Ace Attorney particolarmente memorabile: in molti dei suoi casi, l’enigma giudiziario si fonde con un ritratto tragico dell’animo umano.

Tra i tanti imputati ambigui che popolano la saga, due in particolare si prestano a un confronto illuminante: Ken Dingling, alias Acro, e Ini (Mimi) Miney. Apparentemente, Acro è il più “simpatico” dei due: ha perso tutto, ha subito un trauma devastante e vive con il peso del proprio errore, dopo aver tentato la vendetta. Ini, invece, appare fredda, manipolatrice, e arriva persino a incastrare un’innocente cara a Phoenix (Maya). Ma a un’analisi più profonda, la verità narrativa si ribalta.

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