Quando la traduzione letteraria si fa tecnica: La regina degli scacchi

Fonte: Jahddesign

L’inverno e la turbolenta situazione degli ultimi due anni hanno contribuito nell’ultimo periodo a farci passare più tempo in casa. Quale occasione migliore per mettersi in pari con le serie cult degli ultimi anni?

Gli appassionati non si saranno sicuramente lasciati sfuggire La regina degli scacchi, serie rivelazione distribuita da Netflix da ottobre 2020. Non tutti, però, sanno che è tratta da un romanzo omonimo di Walter Tevis del 1983.

Quanto si distanzia l’adattamento della serie dai dialoghi originali? Ed è effettivamente una rappresentazione accurata, seppur romanzata, del mondo degli scacchi?

Mario Andreoni, appassionato linguista e Presidente dell’associazione scacchistica Arcotorre di Chieri, membro della Federazione Scacchistica Italiana, ci dice la sua opinione in merito in questo articolo.

Nella vita di un traduttore può capitare di aver a che fare con opere letterarie che contengono, quasi come un valore aggiunto, passi o addirittura interi capitoli con uno spiccato carattere tecnico, dove viene adottato un linguaggio peculiare dell’ambiente all’interno del quale si svolge la trama dell’opera. Per ottenere un risultato soddisfacente è allora bene ricorrere alla consulenza di esperti di quell’ambiente, al fine di evitare imprecisioni, se non veri e propri nonsense, che fanno sobbalzare chi in quell’ambiente ci sguazza e rischiano di lasciare comunque interdetto chi ne è estraneo. Naturalmente, il ricorso a questo tipo di “aiuto tecnico” è valido anche per le trasposizioni per piccolo e grande schermo. 

Durante la pandemia ha avuto enorme successo la miniserie di Netflix tratta da un romanzo di Walter Tevis, autore non nuovo a trasposizioni cinematografiche (Lo Spaccone, L’uomo che Cadde sulla Terra, Il Colore dei Soldi), incentrato sulla pratica agonistica degli scacchi. Si tratta di “The Queen’s Gambit”, tradotto in italiano con “La Regina degli Scacchi”. La serie originale è stata impacchettata molto accuratamente, si è avvalsa di consulenze al massimo grado (tra gli altri, l’ex-Campione del Mondo Garri Kasparov), nulla sembra essere stato lasciato al caso e molti dettagli e allusioni, sparsi qua e là per i sette episodi e sui quali gli appassionati hanno aperto una caccia senza quartiere, ne hanno fatto un fenomeno trainante per quella disciplina. Disciplina che, come tutte, possiede un proprio gergo non immediatamente comprensibile dai non addetti ai lavori.

La versione italiana del libro qui analizzata (edizioni Minimumfax 2007, traduzione di Angelica Cecchi con la consulenza di Caissa Italia Editore, casa specializzata in testi scacchistici) è nel complesso molto valida, si “sente” la consulenza di esperti, tranne un paio di “scivolate” niente male, che vedremo (ma niente di paragonabile all’Opera da Tre Soldi!). È interessante vedere come il libro sia stato trasposto nella miniserie, sottotitoli compresi, sebbene sembri non avere sempre avuto il conforto di una consulenza specifica (o almeno non a livello di quella dell’originale) nei passi più prettamente “tecnici”.

Cominciamo con una sottigliezza che solamente gli appassionati sono in grado di cogliere. Nel terzo episodio, la protagonista Beth Harmon, commentando una sua partita, dice “Ho giocato la Marshall”, intendendo una variante (sostantivo femminile!) dell’apertura spagnola. Siccome il diavolo si nasconde nei dettagli, un giocatore anche alle prime armi direbbe senza dubbio “Ho giocato il Marshall”, perché si tratta di un gambetto (sostantivo maschile!), cioè l’offerta di un pedone nelle prime fasi della partita. Più avanti, è il sottotitolo a portarci fuori strada: quando Beth dice “mi serviva una controminaccia”, noi leggiamo “mi serviva una contromossa”, che negli scacchi è una cosa ben diversa dalla controminaccia (per semplicità, negli scacchi la contromossa è giocare con il Bianco uno schema di apertura tipico del Nero).

Nel quarto episodio, la trasposizione filmica fa dire a Beth quello che nel libro, in realtà, è quello che passa nella sua mente durante la partita con Borgov, il Campione del Mondo, alla fine dell’ottavo capitolo. Sull’orlo della sconfitta, Beth non si capacita di come il suo avversario abbia partita vinta perché “everything he was doing was so obvious, unimaginative, bureaucratic”. A differenza del libro, che traduce letteralmente (e bene!), il parlato dice “in maniera così impostata”, mentre i sottotitoli se la cavano con “formale”. Il personaggio di Beth è complesso, ha atteggiamenti e tratti in cui gli appassionati possono rivedere giocatori reali. Uno di questi è il grande e controverso Bobby Fischer, quello della mitica sfida all’establishment sovietico culminato con il “match del secolo” di Rejkyavik nel 1972. Fischer, genio solitario che non era ben visto dalla sua Federazione (proprio come Beth quando confessa: «Alla Federazione non sto simpatica…pensano che non abbia fatto abbastanza per gli scacchi») perché addirittura sin troppo individualista anche per una mentalità come quella americana, accusava i Sovietici di giocare i tornei individuali come fossero una squadra (con rapide patte fra loro e partite tirate fino all’ultimo pedone con gli “stranieri”), e in generale aveva avversione per tutto ciò che negli scacchi era codificato da regolamentazioni e pastoie. Con quell’aggettivo, “bureaucratic”, Walter Tevis, fra l’altro appassionato giocatore, regala ai suoi lettori/giocatori una chicca di rara finezza psicologica, finezza che solo i consulenti del libro hanno ben colto.

Più avanti, Beth commenta con Benny Watts, il giovane campione nazionale USA in carica, la partita persa contro Borgov. Il commento finale, sconsolato, di Benny, in originale è “it all goes, and you just push wood”. L’adattamento del dialogo c’azzecca, perché fa dire a Benny “lui gioca e tu…muovi i pezzi”, battuta fatta con un’intonazione che dice più di tante parole quanto questo muovere sia fatica sprecata. Stranamente, la traduzione del libro è “…e tu mangi la polvere”, che ci dà un’immagine più da film western che da fine descrizione di stato d’animo, a maggior ragione se si sa che nel gergo anglosassone è comune l’espressione “woodpusher” (letteralmente “spingilegno”) affibbiata a chi gioca senza avere bene in mente cosa fare, senza avere una strategia. I sottotitoli diventano improvvisamente il parto dei migliori poeti ermetici, dato che se ne escono con “mentre succede, è tutto insignificante”.

Nel libro le mosse iniziali della partita decisiva vinta contro lo stesso Benny Watts al torneo di Las Vegas (nel quinto episodio della serie) vengono descritte con estrema chiarezza, quasi come se si stesse leggendo il formulario di annotazione delle mosse: anche il principiante può letteralmente “vedere” che Beth offre il cambio, a quel punto della partita inconsueto, delle Donne, cambio che Benny accetta (“Benny non esitò: prese la Donna di Beth con la sua e premette velocemente il pulsante [dell’orologio]. Non disse nemmeno «scacco». Lei prese col Re, come doveva”), specchio fedele del testo originale. Quando i due analizzano la partita, il commento di Benny “I’d never thought you let me trade Queens” (Non avrei mai pensato che mi avresti lasciato cambiare le Donne) viene però sottotitolato in italiano “Non credevo che avresti sacrificato la Donna.” Negli scacchi, proprio come nel vocabolario, “cambio” e “sacrificio” non sono affatto sinonimi. Il cambio è l’eliminazione reciproca di pezzi di pari valore (Alfiere per Alfiere o Cavallo, per intenderci); il sacrificio è la cessione di pezzi o pedoni senza una controparte materiale adeguata, ma per ottenere una posizione migliore se non addirittura vincente.

Nel sesto episodio i consulenti italiani di Netflix si devono essere distratti un attimo, proprio in uno dei momenti più ricchi di pathos, quando all’ultimo turno del torneo di Parigi, Beth affronta Borgov dopo una sbronza notturna. Beth, in lacrime non tanto perché non sopporta le sconfitte ma perché consapevole di aver sprecato il suo talento con il suo comportamento, dice quello che ogni sconfitto sulla scacchiera dice: “Abbandono”. Perché nel parlato la sentiamo dire “Io rinuncio”? Mah….

Nel settimo ed ultimo episodio tre Grandi Maestri russi stanno analizzando la posizione della partita sospesa fra Beth e Luchenko e uno dei loro commenti sottotitolato è “…è un brutto inchiodamento”. Peccato che la parola tecnica giusta sia “inchiodatura”. Più avanti, descrivendo le sensazioni della protagonista durante la decisiva partita con Borgov, l’originale “She was glad to get out of it and into the open” è una di quelle frasi da “paesaggio interiore”, difficile da rendere esattamente se non si è addentro ai meccanismi mentali di uno scacchista, ed è interessante vedere come il concetto viene reso dalla traduzione del libro, dal doppiato e dai sottotitoli. Avendo ben presente che “it” si riferisce alla particolare sequenza di mosse iniziali ben codificate, la cosiddetta teoria delle aperture, il libro rende bene l’idea con “Era contenta di esserne uscita [dalla teoria delle aperture] per andare ad esplorare una via nuova”. Il doppiato perde alquanto del significato della frase, semplificando in “consentendole di aprire la posizione”, mentre questa volta sono i sottotitoli a prediligere le scene da film western con “permettendole di uscire allo scoperto”.

Tirando le somme: l’adattamento italiano rispecchia quasi sempre fedelmente le atmosfere e la lingua originale, tranne qualche piccolo dettaglio, sfuggito probabilmente perché non “nel posto giusto”, cioè la descrizione o l’analisi delle partite, ma altrove nel dipanarsi della storia; i sottotitoli denotano spesso la mancanza di una consulenza tecnica, fatto comprensibile tenendo conto dei soliti fattori “estranei”, come i tempi stretti da rispettare, restrizioni nel numero di caratteri ecc.… Il che è un peccato, perché qualunque appassionato di un qualunque circolo scacchistico di periferia si sarebbe prestato entusiasticamente (e magari pure gratuitamente, la passione fa fare questo e altro) a un “controllo di qualità”!

Autore: Irene Andreoni

Nata in Italia, adottata dalla Germania, sono ciò che si può definire un’”eterna ottimista”. Sogno di terre lontane, una libreria zeppa e una casa piena di gatti. Non necessariamente in quest’ordine. Traduttrice per formazione e per passione, per me le lingue rispecchiano la bellezza della diversità.

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