(La recensione contiene alcuni spoiler)
- Premessa:
Ci fu un tempo in cui potevo definirmi un’accanita amante dell’horror e di tutto ciò che riguardava il paranormale. Non a caso sono sempre stata una ”bambina” particolare fin da quando ne ho memoria. Tuttavia, arrivata ad un certo punto della mia vita, queste storie horror che tanto amavo inizialmente sono, lentamente, diventate i miei incubi. Non mi facevano dormire la notte e mi angosciavano in ogni secondo che passavo nel letto. Così, nel lontano 2011 circa, decisi di lasciar perdere e di soffermarmi su un altro genere di film, di anime, di manga… insomma, di qualsiasi cosa che non avesse a che fare con demoni e robe simili.
Solo vampiri e lupi mannari andavano bene.
Eppure, nonostante il divieto imposto da me stessa, sono sempre rimasta affascinata dai thriller, casi di cronaca nera irrisolti, documentari psicologici volti al fine di capire cosa passasse nella famosa “mente del serial killer”… ed ecco perché, nel 2022, ho iniziato e vedere una serie di American Horror Story.
Premetto che già alla sua uscita, comunque e nonostante il mio stesso veto, la curiosità aveva avuto la meglio e non ero riuscita a non vedere alcuni episodi delle prime stagioni.
Che dire… ero affascinata e terrorizzata allo stesso tempo, motivo per cui alla fine non ho continuato nulla (come la maggior parte delle cose che inizio, ahimè), eppure mi è sempre rimasto un po’ il senso di vuoto… come se mi mancassero dai pezzi di un puzzle al quale non volevo rinunciare per nessuna ragione. Alla fine, con il mio ragazzo, abbiamo optato per scegliere una serie di AHS per verificare come potessi reagire a riguardo.
Per chi non lo sapesse, il bello di AHS è che ogni stagione è una storia a sé, con personaggi diversi (nonostante il più delle volte gli attori siano sempre gli stessi – e questa è una cosa che adoro), storie diverse, ambientazioni diverse e, ovviamente, anche la presenza horror della stagione è differente.
Si può dire che, forse, l’unica cosa che hanno in comune le stagioni di AHS sono questa componente esoterica, in particolare satanica, messa costantemente qua e là in più o meno tutte le serie (almeno in quelle che ho visto).
Ma torniamo a noi: la stagione 9!
E voi vi direte: perché scegliere proprio questa stagione a differenza delle altre? Che ha di così particolare?
La risposta è molto semplice: gli anni 80!
Difatti l’intero arco narrativo si svolge in quel periodo, quando Billy Idol e l’aerobica andavano così forte da far impazzire gran parte della popolazione americana.
Ed è proprio in un centro di aerobica che la nostra storia ha inizio…
Fin dall’inizio ci vengono presentati, a ritmo di musica, quasi tutti i personaggi principali di questa stagione dove la presenza di una fantastica Emma Roberts (nipote della famosa attrice Julia Roberts) spicca inesorabilmente sopra tutte le altre.
In un certo qual modo si potrebbe dire che il suo personaggio, Brooke, ha un ruolo quasi da protagonista ed è per questo che, forse, la sua presenza è messa come in rilievo sulle altre. Tuttavia, questo non significa che gli altri personaggi presenti non siano importanti perché ognuno di loro, nel bene o nel male, è parte attiva della storia che questa stagione ci va a raccontare.
Brooke Thompson è una giovane donna che si è appena trasferita a seguito di un evento traumatico della sua vita. Ha deciso di lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo, da zero, anche per lenire un po’ le sue ferite che quel tragico evento le ha lasciato dentro, solo tanta tristezza e paura.
Così si iscrive in una palestra di aerobica dove ha la “fortuna” di fare nuove “amicizie” (poi capirete il perché delle virgolette) che le propongono di andare con loro a fare i Coordinatori per questo famoso Camp Redwood. Dubbiosa all’inizio, a seguito di una violenta notte passata a cercare di sopravvivere ad un serial killer, Brooke si ritrova il giorno dopo sulla strada che porta a questo famoso Camp Redwood assieme a tutti gli altri: Xavier, il maestro di aerobica; Montana, una patita di aerobica che fin da subito ho avuto come l’impressione che ci stesse provando con Brooke xD – impressione super smentita dagli episodi successivi; Ray, il tipico personaggio cagasotto che odierete all’inizio per ovvie ragioni ma che forse si riprenderà verso la fine e Chet, lo sportivo pompato che fa uso di steroidi.
Arrivati al Camp, dopo un palese avvertimento di un meccanico lungo la strada di lasciar perdere e tornare da dove sono venuti, scoprono di essere gli unici coordinatori presenti in tutto il campo, oltre la cuoca, la proprietaria – Margareth Booth (tenete ben a mente questo personaggio) – e l’infermiera del campus che all’inizio si presenta con il nome di Rita (ma che più avrete modo di inquadrare meglio).
Ecco, giunti qua vi basti sapere una cosa fondamentale: NIENTE (E NESSUNO) E’ COME SEMBRA!
Andando avanti nella storia ci ricolleghiamo a quello che era stato lo spezzone iniziale del primo episodio: il massacro del camp nel 1970 (più di dieci anni prima rispetto a quando si svolge questa storia). Ed è proprio Margareth che ce lo racconta, essendo l’unica testimone e superstite di quella terribile notte.
Margareth narra la storia di un ex soldato della guerra del Vietnam (Benjamin Ritcher – chiamato da tutti Mr. Jingles visto il suono che riproducevano le chiavi che portava con sé quando passava) fosse stato assunto dal campo nel 1970 e di come lui, preso probabilmente da un raptus di follia a seguito delle uccisioni avvenute in guerra di cui era stato l’attore, abbia ucciso 9 coordinatori in una sola notte. Non solo sgozzandoli, impalandoli o squarciandogli le budella, ma anche – e soprattutto – tagliando loro un orecchio in modo da ricavarne una collana che avrebbe messo al collo come simbolo della sua “vittoria” su quei coordinatori che non facevano che deriderlo di continuo.
A dimostrazione del fatto che quello che ha appena detto non sia solo una storia dell’orrore da raccontare di fronte ad un falò, Margareth si scopre anche lei l’orecchio, lasciando intendere la veridicità delle sue parole, lasciando tutti i presenti impietriti ed increduli ad un tale massacro. Ed alla domanda di “che fine ha fatto Mr. Jingle?”, Margareth si limita solo a dire che fu arrestato e condannato a marcire in una cella per il resto dei suoi giorni.
Ed ora voi penserete: “Ma se questa è stata vittima di un massacro del genere, come le è venuto in mente di riaprire il campus?!” (vi ricordo che sì, la proprietaria del campus è diventata proprio lei a seguito dell’uso di una parte della fortuna lasciatale dal suo defunto marito).
E’ chiaro fin da subito che Margareth non sta bene col cervello.
Parla di quella tragica notte e racconta di come il suo corpo e la sua anima si fossero in qualche modo staccate, di come Dio – in questo modo – l’abbia salvata e di quanto sia potente la sua fede in Dio da renderla senza paura al punto tale da voler riaprire il campus del massacro del 1970.
Già qua, una pazza schizzata (a mio parere).
A parte già che non aveva la mia simpatia per via della sua ossessione nei confronti della religione, ma non perché io sia atea o altro, ma è perché, mi duole ammetterlo, è proprio in persone del genere che spesso si annida il male più profondo… per lo meno, data la mia esperienza…
Nel frattempo… in manicomio…. Mr Jingles fugge.
Ebbene sì. Avete letto bene. Fugge ed è prossimo a dirigersi verso Camp Redwood per avere la sua vendetta su Margareth (visto che è proprio la sua testimonianza che l’ha fatto incarcerare) e per continuare quelle stragi che aveva iniziato nel lontano 1970. Eppure, nel corso degli episodi, c’è un pezzo in cui Mr. Jingles sembra come aver ricontattato la sua parte umana. Si ferma ad osservare un giovane ragazzo, un po’ in sovrappeso, alla ricerca dei suoi occhiali (senza i quali non vede niente, neanche che davanti a lui ha un assassino in carne ed ossa) che lo ringrazia per averlo portato con loro, scambiandolo per uno dei suoi “amici” con cui è venuto quella notte. A differenza di tutto quello che potrete vedere in questa stagione, lui è l’unico “personaggio” che Mr. Jingles decide di non uccidere e di lasciare andare.
Ma perché fare una cosa del genere? Cosa è scattato nella mente del nostro serial killer?
Che forse non sia chi pensiamo che sia?
Molte domande, alle quali se ne aggiungeranno altre, e che verranno svelate nel corso della storia.
Ricordate: NIENTE E NESSUNO E’ COME SEMBRA!
La linea di demarcazione fra bene e male è talmente sottile da trarre le persone in confusione.
Cosa è realmente giusto e cosa è realmente sbagliato? Perché uccidere per vendetta dovrebbe essere giusto ed uccidere per difesa dovrebbe essere un errore?
Chi è il vero burattinaio di tutta la vicenda?
Mr. Jingles?
Oppure il killer seriale satanista – di nome Richard Ramirez – che è intenzionato ad uccidere Brooke ad ogni costo senza un apparente motivo?
Oppure la finta infermiera di nome Rita che altri non è che una psicologa che, alla ricerca di risposte, ha osato spingersi troppo in là e fare il passo più lungo della gamba?
Oppure… la fanatica di Dio, la suora mancata (si fa per dire), nonché proprietaria del camp degli orrori, Margareth Booth?
Tante storie così diverse e divise fra loro che hanno avuto la (s)fortuna di incontrarsi ed aggrovigliarsi fra loro fino a creare un nodo indissolubile da sciogliere.
Conclusione:
“Era iniziata così bene… è finita… così…” queste sono state le parole mie e del mio ragazzo non appena terminata la serie.
Ma partiamo dall’inizio: indubbiamente ho apprezzato moltissimo l’intreccio narrativo delle varie storie fra i personaggi. Così come l’evolversi di alcuni di loro, fra cui Brooke, Montana e Mr. Jingles.
Diciamo che ad un certo punto era palese chi fosse il vero attore di tutta questa messa in scena, ma non è questo che mi ha lasciato un po’ l’amaro in bocca, quanto piuttosto i troppi avvenimenti che succedono verso la fine della stagione.
Tipi che non si filavano minimamente fra loro decidono, di punto in bianco, di allearsi con gli altri perché hanno identificato un “nemico comune” – su quali basi non si sa visto che, fino a prova contraria questo era venuto solo un suo scopo personale e basta – da dover sconfiggere ad ogni costo.
Questa cosa mi ha spiazzata un pochino. Forse sono io a non aver colto lo spirito di squadra che ad un certo punto fanno tutti i ragazzi di questa stagione (nb. Tutti i ragazzi di questa stagione) e l’ovvio motivo per cui lo fanno visto che molti di loro, invece, ce l’hanno con il famoso Mr. Jingles. Ma pare che siano bastate due parole di perdono da parte sua, una bella giratina di frittata e la scomparsa del povero Mr. Jingles stesso, che tutti si sono accaniti sui restanti serial killer. Però specifico: su uno, ok, ci stava. Diciamo che posso pure capire, ma sull’altro proprio non so… anche perché si attaccano a lui per impedirgli di andare ad uccidere il figlio di Mr. Jingles (sì, non mi soffermerò nei dettagli ma sappiate che questo alla fine aveva figliato ed aveva cercato la redenzione dei suoi peccati scappando in Alaska). Ma io mi domando: ok che Mr. Jingles è sparito e ad un certo punto non si trova più per tipo trenta anni. Ma se erano tanto arrabbiati con lui, perché proteggergli il figlio? Boh, sarò io, ma non l’ho capita ‘sta cosa. Mi sembra una forzatura, ecco.
Capisco che, essendo passati anni, alla fine, uno si faccia pure un esame di coscienza e capisca che quel che ha fatto non è proprio l’azione che ti metterebbe fra la lista dei “buoni” di Babbo Natale, ma… boh, non sono convinta.
Ciononostante, abbiamo anche dei lieto fine per alcuni dei personaggi presenti. In primis: Brooke.
Alla fine il suo personaggio ha avuto una bella evoluzione. Dalla ragazza pura e candida come la neve che proprio non riesce a vedere il male in nessuno (neanche quando è palese come la luce del sole), la ritroviamo una donna che è riuscita ad andare avanti e a realizzarsi, lasciandosi indietro il passato, se non tutto diciamo quasi tutto. Non solo è riuscita a sopravvivere a quel terribile incubo, ma ha avuto anche la forza di farsi una famiglia. Se all’inizio il suo personaggio mi stava sulle palle per via della sue fin troppo ingenuità (ed anche perché ad un certo punto sembrava che il suo ruolo nella serie fosse solo quello di scappare a destra e a manca), verso la fine mi sono dovuta ricredere. Già verso la metà in realtà. Ad un certo punto si vede proprio come la ragazza abbia aperto gli occhi al mondo che la circonda e di come voglia pareggiare i conti, prima con la vendetta, sfruttando odio e rabbia, per poi giungere alla pace con se stessa fino a trovare il coraggio di andare oltre e lasciarsi tutto alle spalle.
Ma la parte che più ho preferito riguarda la storia di Mr. Jingles, della sua famiglia e di suo figlio, Bobby (chiamato così in onore del fratello).
Sono passati ben trenta anni e ci troviamo nel 2019. Bobby è cresciuto in Alaska grazie alle cure della zia materna la quale gli ha rivelato, un anno prima, in punto di morte, la vera storia di sua padre. Confessandogli che a Camp Redwood avrebbe trovato tutte le risposte che cerca. Ed è questo il motivo che spinge un giovane Bobby a varcare la soglia del Camp.
Non voglio spoilerare troppo, un po’ perché si tratta dell’episodio finale e vi rovinerei tutto ed un po’ perché, secondo me, quell’episodio merita di essere visto e non solo letto tramite una recensione di un sito.
Vi dico solo che padre e figlio alla fine hanno modo di vedersi e quella è la scena che più ho preferito in tutto il finale. Si percepisce proprio l’affetto che provano l’uno verso l’altro; come Bobby non voglia lasciar andare suo padre nonostante in pericolo di vita. E’ come se la serie in quel breve lasso di tempo si fermasse e ti dicesse: “aspetta, guarda qua…”. Bobby piange, ma sono lacrime di gioia quelle che gli escono e non di dolore. E Benjamin – l’ex Mr. Jingles – ora sa che suo figlio è salvo e può lasciarlo andare, provando una pace che sicuramente non proverà mai più.
Sicuramente non è una serie da buttare. Ha alti e bassi, e spesso i bassi lo sono perché rasentano il ridicolo. E mi dispiace un sacco dirlo. Ma, se da una parte ho percepito questo, dall’altra diciamo che con un finale “strappalacrime” si salva.
Merita di essere vista, ma a tempo perso, secondo me. Senza aspettarsi troppo e senza troppe pretese.
Magari per ingannare un piovoso week end dove non volete/potete uscire per ovvi motivi.
Purtroppo sono problemi tipici di tutte le stagioni di AHS: storie che partono con un buon potenziale e poi, com’è come non è, finisce immancabilmente in vacca. Non per niente ho mollato con la sesta stagione, quando mi è sembrato di aver tollerato abbastanza. Devo dire di non essere esattamente fan di Ryan Murphy e delle sue creazioni, sebbene mi sembra tutti lo considerino uno dei migliori creator in attività: delle sue serie che ho visto mi è piaciuta davvero solo Feud. Di questa stagione ho visto solo il primo episodio e già quello mi era sembrato terribile: direi di aver fatto bene a non andare avanti!
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