Metti una cena con l’amico internazionale nell’osteria più tipica della tua città, occasione incredibile per fargli provare tutte le leccornie che solo in quell’angolo di mondo si possono trovare.
Occhi sbarrati, curiosità velata dall’imbarazzo, il menù si abbassa chiudendosi appena e con un mezzo sorriso ti chiede “What the hell is gnocchi?”
E come glielo spieghi?
Non è un tipo di pasta visto che l’impasto è di patate ma nemmeno un secondo o un contorno. Definirli palline di pasta di patate (!) sarebbe uno scempio; l’inglese “dumplings” potrebbe andare ma ha ben poco di convincente perchè solitamente con questa parola si intendono i ravioli cinesi ripieni o dei fagottini di mele, tutto un altro universo rispetto ai nostri italici gnocchi. Panico.
Signore e signori ecco a voi un comunissimo caso di realia.
Ma cosa sono i realia? Si mangiano? Anche.
Osimo, caposaldo della teoria della traduzione, nel suo “Manuale della Traduzione” definisce realia come “le parole che denotano cose materiali cultorospecifiche (…) un elemento culturale, non linguistico”. In altre parole, qualcosa che va oltre al semplice concetto di “parola”, una vera e propria finestra che ci permette di affacciarsi su una realtà con aspetti culturali unici e per questo introvabili – e intraducibili- in altre realtà. Essendo così peculiari alla propria cultura d’origine, i realia infestano un po’ tutti i campi dalla gastronomia alla cultura e dalla geografia agli stati d’animo.
Ecco perchè è così difficile tradurre l’italianissimo “tiramisù”, la fertile “pampa” argentina, la poetica pioggia di petali di ciliegi giapponesi dell’ “hanami”, le risate che si fanno durante “sobremesa” spagnola o l’incurabile “saudade” del popolo portoghese: una traduzione in una lingua diversa dalla propria non esiste.
Oltre a spiegazioni buffe, gesti e molta frustrazione esistono, però, soluzioni per combattere questi nemici dei traduttori e di chi vuol far conoscere il proprio paese. Se la parola in questione, per esempio “spaghetti”, esiste anche nella lingua target, la lingua cioè verso la quale il traduttore dovrà trasmettere il testo, il problema non si presenta in quanto si ha la certezza che il nuovo pubblico destinatario potrà cogliere senza ostacoli cosa si intende con “spaghetti”, ovvero un tipo di pasta italiano dalla forma lunga e sottile. Il livello di difficoltà aumenta, dunque, se la parola non ha nessun equivalente e occorre metterci letteralmente le mani sopra andando a cambiare la calligrafia rendendola più familiare al nuovo pubblico (è il caso di kašmire diventato cachemire in francese o cashmere in inglese) o addirittura creare da zero una nuova parola traducendola direttamente come nell’esempio “skyscraper” reso in italiano con il letterale “grattacielo”. Nel caso in cui il nostro realia sia un osso duro e non possa essere affrontato con nessuna di queste soluzioni, un altro validissimo e semplicissimo metodo è aggiungerci una breve descrizione di cosa sia.
Fra questi qual è il metodo migliore?
Non esiste un metodo migliore dell’altro perchè, come sempre, è il contesto che detta l’ultima parola. E’ chiaro come lasciare il realia così com’è abbia un certo effetto in un programma di viaggio rispetto ad un articolo scientifico; nel primo caso si creerebbe quel non so chè di esotico ed evocativo della località da visitare mentre nel secondo, in cui parola d’ordine dev’essere la chiarezza, getterebbe il lettore nella confusione più totale se non supportato da una breve spiegazione.
Negli ultimi anni, però, si può notare una tendenza – soprattutto nei film – a lasciare intoccati questi elementi culturali perchè c’è una maggiore sicurezza nei confronti del pubblico destinatario che possa coglierli con facilità, complici una serie di elementi come una più grande predisposizione ai viaggi, l’accesso a internet, lo studio delle lingue sempre più maggiore e la globalizzazione.
(ri)Guardare Friends oggi fa ben capire come siamo cambiati.
Lontani sono i tempi in cui si scambiava un palese muffin con gocce di cioccolato per un plumcake. Si trattava di un cambio necessario perchè al tempo il pubblico italiano di fine anni ‘90 era più familiare con questo tipo di dolce rispetto ai muffin, un’americanata ancora sconosciuta ai più destinata a conquistare la pancia di molti negli anni avvenire. E sì, questo esempio è una citazione alla scena “Lick my muffin” del 23esimo episodio della seconda stagione.
Magari la prossima volta portate il vostro amico nella vostra pizzeria di fiducia.