Giudicare Scorn è molto difficile, come si può intuire guardando quanto sono diversi tra loro i voti dati al gioco dai vari siti specializzati. Si passa da un estremo all’altro, rendendo complicato farsi un’idea senza prendere il pad tra le mani e buttarsi a capofitto in un mondo alieno e terribile, dove tutto sembra composto da organi interni e metallo. E se c’è un aspetto capace di mettere d’accordo tutti è proprio l’atmosfera che si respira: Ebb Software ha messo in scena uno spettacolare tributo ai quadri di Hans Ruedi Giger, curando ogni singolo dettaglio con una maniacalità che lascia a bocca aperta. Quello strano miscuglio di fascino e repulsione che si prova guardando le tele dell’artista svizzero è onnipresente e vale la pena arrivare fino al termine del viaggio anche solo per goderselo appieno.

Alle visuali grottesche si accompagna un comparto audio pensato per amplificare al massimo il disagio del giocatore. Ogni suono ricorda a chi lo ascolta che non è solo: là fuori, da qualche parte, c’è sempre qualcosa che striscia, pulsa o geme e potrebbe palesarsi in qualunque momento. L’accompagnamento musicale è ridotto all’osso, però le tracce presenti sono capaci di enfatizzare appieno l’atmosfera delle sequenze durante le quali sono riprodotte. Il resto del gioco è accompagnato da un silenzio opprimente, che riflette la desolazione del mondo che circonda il protagonista.
Le fasi iniziali di Scorn sono accompagnate da una sensazione di spaesamento che ho provato poche altre volte di fronte a un videogioco. Tutto inizia senza alcuna spiegazione: il giocatore deve scoprire da solo dove deve andare, come può interagire con l’ambiente che lo circonda e a quali tasti corrispondono le azioni da compiere. Anche dal punto di vista della trama vige la cripticità più totale. La narrazione è affidata a quel che compare sullo schermo, che non è mai esplicitato tramite testi o dialoghi. Quest’approccio estremo allo show don’t tell è perfetto per trasmettere l’illusione di trovarsi davvero in un mondo alieno, dove tutto è difficile (se non impossibile) da comprendere.

Una scelta senza dubbio affascinante, che però ho apprezzato solo fino a un certo punto. Non ho nulla da ridire sull’oscurità che avvolge la trama, calzante con gli intenti del team di sviluppo, ma sono meno propenso a chiudere un occhio su alcune scelte di game design che rendono l’esperienza frustrante. Anche dopo aver superato la prima fase, infatti, capita di imbattersi in momenti nei quali non è chiaro con quali elementi dello scenario sia possibile interagire o cosa renda impossibile risolvere un certo enigma in quel preciso momento. Videogiochi come Elden Ring e The Legend of Zelda: Breath of the Wild hanno dimostrato che è possibile guidare il giocatore in modo efficace senza spezzare l’immersione, quindi fatico a giustificare queste mancanze di Scorn etichettandole come una scelta stilistica.
A rendere l’esperienza abbastanza dispersiva ci pensa anche la palette cromatica di buona parte delle ambientazioni, che mi ha portato spesso a smarrirmi in corridoi all’apparenza tutti uguali (e già il mio senso dell’orientamento non brilla in circostanze normali). Questo però potrebbe essere ancora un difetto trascurabile, un piccolo neo in un’avventura brillante. Purtroppo non è l’unico: ci sono problemi ben più gravi che affliggono Scorn e ruotano tutti attorno alla scellerata scelta di inserire degli scontri nel gioco.

L’umanoide che si controlla nel corso dell’avventura è ben poco agile, caratteristica che lo rende del tutto inadatto al combattimento. È lento a muoversi, a cambiare arma e a ricaricare. Poi è fragile e bastano un paio di sputi (letteralmente) per portarlo a metà vita. Che gioia affrontare dei mostri con un personaggio così, eh? Come se non bastasse, per buona parte del gioco l’unica arma a disposizione è uno stantuffo che ci mette una vita a ricaricarsi, permette di attaccare solo due volte di fila e richiede di andare vicinissimi ai nemici per colpirli, esponendosi di conseguenza ai loro attacchi. Il tutto è condito da una barra della vita che non si ricarica da sola e che può essere ripristinata solo utilizzando “oggetti” elargiti con ben poca generosità (paradossalmente è più facile trovare le munizioni per le armi) e da un sistema di salvataggio automatico ampiamente rivedibile (può passare più di un’ora da un save state e l’altro e il salvataggio manuale è del tutto assente). Mi è capitato più volte di ritrovarmi con pochissima vita in un’area piena di nemici e di doverla ripetere più volte a causa di attacchi quasi impossibili da evitare. Alcuni combattimenti, infatti, si svolgono in corridoi stretti, nei quali è difficile fuggire per risparmiare salute e proiettili.

Tutti questi problemi hanno reso molto frustranti le fasi centrali del gioco, che ho trovato un po’ meno ispirate anche dal punto di vista dell’atmosfera. Solo nella parte conclusiva sono tornato a guardarmi attorno a bocca aperta e a respirare l’orrore e la meraviglia che aveva accompagnato l’inizio del gioco. Anche se Scorn è durato meno di una decina di ore, in alcuni punti mi sono ritrovato a pensare “ma quando finisce?”, segno evidente che qualcosa poteva (e forse doveva) essere rivisto. Personalmente avrei fatto volentieri a meno del gunplay in cambio di aree più vaste, come quelle che fanno da “ponte” tra una sezione del gioco e l’altra.
Il giocatore, infatti, passa la maggior parte del tempo in aree chiuse, dov’è chiamato a risolvere un enigma dopo l’altro per procedere lungo un percorso del quale neppure alla fine si riesce a comprendere del tutto l’utilità.

Questo ci porta a un altro aspetto della narrazione di Scorn: l’ampio uso del simbolismo. Pur essendo criptico e ambiguo, il gioco fa ampio ricorso a delle figure ricorrenti, legate soprattutto alla sfera sessuale, che permettono di intuire che dietro a quest’opera grottesca si nasconde una riflessione sul ciclo della vita. La morte è onnipresente nel mondo che circonda il protagonista, eppure ci sono anche tanti simboli che portano alla mente la nascita, come le numerose uova nelle quali ci si imbatte nel corso dell’avventura o le particolari rappresentazioni artistiche presenti nell’ultimo ambiente esplorabile. Pur con questi elementi, dare un senso al tutto resta un’impresa ardua e basta fare un giro su Internet per imbattersi in tante teorie e interpretazioni differenti. Nonostante i difetti che affliggono il gioco, gli sviluppatori sono riusciti quantomeno a raggiungere uno degli obiettivi che si erano prefissati: stimolare la riflessione e l’analisi critica di quanto vissuto con il pad tra le mani.
1 commento su “Scorn, lo show don’t tell videoludico portato all’estremo”