Alla conclusione di un proprio lavoro, un autore si trova spesso a dover valutare l’idea di realizzare uno o più sequel: solitamente benvenuti e pianificati, come per quanto riguarda la collana di Harry Potter, in altri casi esistono realtà ben più complesse.
Frequentemente capita di parlare del fatto che il sequel di un lavoro di successo non sia all’altezza dell’originale. Ciò spesso si attribuisce agli editori e alle campagne di marketing che costringono gli autori a continuare a scrivere nello stesso universo.
Un lavoro di successo è un lavoro che porta buoni incassi. Non soltanto nella sua forma originale, ma anche in forma di gadget, videogiochi, magliette a tema e via discorrendo. I sequel vengono a volte forzati sugli autori o sviluppatori proprio per continuare una catena di vendita. Per le più svariate ragioni, questo può portare a discostarsi troppo dall’idea originale, a volte rovinandola.

Aprendo una parentesi a riguardo, questa catena di vendita e di sequel “dannosi” spesso prosegue anche quando l’autore originale di un lavoro viene a mancare.
Ci sono innumerevoli esempi di personaggi o serie che hanno continuato dopo la morte del loro autore: si può parlare, per esempio, della figura di Topolino.
Il suo creatore originario è stato Walt Disney, ma il celebre animatore è deceduto nel ’66.
A continuare il suo lavoro è stato Roy O. Disney, suo fratello, e gradualmente ha preso la presidenza della compagnia Walt Disney, insieme ai rispettivi personaggi che poi sono passati di mano in mano.
I personaggi e le storie sono considerati un bene, letteralmente delle proprietà, e quindi vengono ereditati da figure designate o parenti stretti.
Ma, come si discuteva, questo non porta sempre a risultati positivi.
In alcuni casi in cui l’autore originale non è in grado di continuare il suo lavoro, se il marketing lo esige, possono avvenire situazioni come il caso di Dragon Ball GT. Il lavoro ha ricevuto diverse recensioni negative da entrambi i fan e dalla critica specializzata, che sostengono che l’opera non è stata realizzata da Toriyama stesso, e che non ha seguito le sue idee originali.

Questo tipo di circostanze si estendono anche a opere letterarie. Ad esempio, l’uso del celebre detective Hercule Poirot da parte di una differente autrice rispetto ad Agatha Christie, o il seguito della trilogia di Millennium dopo la morte di Stieg Larsson.
La scrittrice Sophie Hannah ha continuato il lavoro di Christie utilizzando il personaggio di Poirot nel suo romanzo The Monogram Murders, e nonostante il suo talento, l’accoglienza del pubblico è stata mista.
Una recensione del sito internet “The Guardian”:
“[…] Her crime fiction is superb, her plotting a marvel of inventiveness. She is also a very modern writer; a better one, many would say, than Christie. I had the idea that she would put a clever spin on the Christie template, rather than tamely fitting into it, and indeed The Monogram Murders tells a story of passion, revenge and guilt that could form the powerful basis for a contemporary Hannah novel. At the same time, however, she is required to act as a medium, to create the illusion that a much-loved voice can be heard once more.
Meanwhile, Hannah’s Poirot does all the right things: chucks in French phrases, assembles his suspects in large rooms and basks comfortably in his own omniscience. Yet he is, somehow, oddly lifeless. As conceived by Christie he is not a “character” as such, more an impressionistic sketch, but he has absolute vitality on the page; and he has the quality of connection with the reader, which is at the heart of his creator’s mysterious gift.
The failure to ignite him typifies the difficulty with The Monogram Murders. For all its approximation to an Agatha Christie, the book actually bears very little resemblance to one. It is a dense, complicated, vaguely old‑fashioned detective story, containing diluted essence of Poirot.”
Perché Hannah ha fallito nella rappresentazione del personaggio? Ritengo perché lei non è l’autore originale. Di conseguenza, non poteva comprendere l’essenza di Poirot. Ma ciò non ha rilevanza nel mondo marketing, dove una figura emblematica come il suo personaggio può essere utilizzata anche da un altro autore.
Il giornalista e scrittore David Lagercrantz si è occupato della trilogia di Millennium, nonostante discussioni e complicazioni tra la famiglia di Larsson e la sua compagna Eva Gabrielsson.
Il lavoro completo, The Girl in the Spider’s Web, ha provato ad attenersi il più possibile alla saga originale, ma appena la visione dei personaggi si è scostata di poco, hanno iniziato a crearsi dei problemi. Ecco la critica rivolta al personaggio principale della saga, Lisbeth Salander, utilizzata da Lagercrantz:
“[…] Salander’s relationship with her sister Camilla is equally adeptly drawn, simmering with an ancient hatred, briefly interspersed with an uncharacteristic hesitation. It contains the seed of future additions to the series, but it also humanises Salander and gives her an emotional context that was never part of Larsson’s design. It’s also why Lagercrantz’s leaves one with accounts twinge of disappointment. When Lisbeth Salander Appeared in 2005, part of her charm was her unpredictability.
Salander has been one of the most original inventions in popular fiction – a vengeful sociopath of a heroine with an icy resolve and an uncanny survival instinct. Lagercrantz seems far too deferential to that idea of Salander and the repute he is dealing with an icon already. He rationalises many of her actions, making her to appear tamer and less angry than the person Salander used to be.”
Esistono anche altre ragioni per la nascita di un cattivo sequel.
Ad esempio, l’affetto dell’autore per il suo lavoro è legato a quell’universo in particolare, e può diventare difficile non essere in grado di trovare la volontà o l’ispirazione per iniziare un nuovo lavoro distaccato da quello precedente.
Personalmente, per moltissimi anni ho sempre scritto nello stesso universo immaginario. Mi sono scoperto a favorire i primi personaggi che avevo creato, rispetto a quelli che ho creato in seguito, e ciò non è sempre stato positivo per ovvi motivi.
Anche molti altri autori hanno vissuto lo stesso problema. Per esempio Suzanne Collins ha dichiarato in un’intervista:
“Interviewer: Are you able to consider future projects while working on The Hunger Games, or are you immersed in the world you are currently creating so fully that it is too difficult to think about new ideas?
Collins: I have a few seeds of ideas floating around in my head but—given that much of my focus is still on The Hunger Games—it will probably be awhile before one fully emerges and I can begin to develop it.”
L’affetto per la propria opera è qualcosa che deve esistere e che, nella maggior parte dei casi, si viene a creare spontaneamente. Ma non bisogna nemmeno finirne invischiati.
Personalmente ritengo che un buon sequel sia necessario alla storia (o all’universo esteso) nel complesso. Quindi un sequel che il lettore o lo spettatore intenda seguire, che non senta “a noia”, forzato.
In scrittura è difficile saper valutare se un sequel “è necessario” ed altrettanto difficile è resistere al richiamo dell’affetto per il proprio lavoro.
Ma esattamente come un vecchio amore, a volte, per il bene di lavori futuri, è positivo lasciare il passato alle spalle e trattarlo per ciò che è stato: un’esperienza. Rispettarne quindi la conclusione senza “dissacrarlo” per ragioni futili.