Proprio come Gabriele, anch’io provo una grande nostalgia della sensazione di assoluta libertà che provavo durante la stesura delle mie prime “opere”.
Tutto iniziò quando avevo 13 anni. Dopo la lettura della serie “Le Cronache del Mondo Emerso” di Licia Troisi provai per la prima volta il desiderio di scrivere un romanzo e di vedere, un giorno, il mio nome su una copertina.
Mi misi subito all’opera e nel giro di un’estate sfornai il mio primo “libro”, dal titolo per nulla edgy: “Le guerre infernali”.
Pure per me che l’ho creato non è troppo semplice descriverlo. A ben guardare era un mischione di tutto quello che mi piaceva in quel periodo: Harry Potter, Tales of Symphonia, le Cronache del Mondo Emerso e vari anime e manga.
Il tutto condito con una dose abbondante di riferimenti biblici a caso.
Non serve scendere troppo nel dettaglio sui numerosi errori presenti in quel mio primissimo tentativo. Mi limito a dire che il protagonista era il nipote dell’angelo che aveva ucciso Lucifero, possedeva dei poteri fuori dal normale (come immobilizzare i nemici, parlare con gli animali, creare delle copie illusorie di se stesso ecc.), vinceva risse con studenti molto più grandi e partecipava a maratone in cui era legale uccidere gli altri partecipanti per avvantaggiarsi (!!!).
Insomma, avevo creato un Gary Stu (la versione maschile di Mary Sue).
Ero consapevole di aver creato qualcosa di improponibile? Ovviamente no.
Ne ero orgoglioso ed era pure convinto che, come un novello Cristopher Paolini (che in quel periodo era piuttosto in voga), sarei riuscito a sfondare nel mondo della letteratura da giovanissimo.
Dopo aver stampato il manoscritto (non avevo ancora Internet e non avevo mai mandato una email in vita mia) decisi di inviarlo a una casa editrice.
Quale? Ma alla Salani, ovviamente! Nella mia mente, la casa editrice che aveva pubblicato Harry Potter era l’unica scelta possibile per il mio romanzo d’esordio (beata ingenuità!).
Per fortuna, l’inevitabile rifiuto della Salani arrivò molti mesi dopo, quando ormai mi ero reso conto da solo di avere ancora molta strada da fare prima di vedere un mio libro sugli scaffali dei negozi.
I lati positivi di quella prima esperienza? Bè, per qualche strana ragione alcuni miei compagni di classe apprezzarono molto “Le guerre infernali”, tanto da arrivare a chiedermi informazioni su eventuali sequel. Non ricordo di preciso cosa risposi, ma so con certezza che nella mia mente esistevano almeno altri quattro libri dedicati alle avventure del mezz’angelo Christopher Anderson e dei suoi amici.
È inutile dire che non ne scrissi neanche uno, vero? Per amor della verità, ricordo che qualche pagina del secondo volume la buttai già, ma poco dopo accantonai il progetto a tempo indeterminato.
A prescindere da tutto, per il me stesso tredicenne scrivere “Le guerre infernali” fu un’esperienza divertentissima. Adoravo mettermi ogni giorno davanti al computer e buttare sulla pagina tutto quel che mi passava per la mente senza interruzioni (letteralmente… non andavo mai a capo!).
Penso che se quella prima esperienza si fosse rivelata noiosa avrei abbandonato del tutto la scrittura creativa.
Scrissi il mio secondo “libro” (per questi primi pastrocchi le virgolette sono d’obbligo) un anno dopo, nell’estate del 2006.
In quell’occasione fu la visione dell’anime “Burst Angel” a darmi l’ispirazione necessaria per rimettermi all’opera. In realtà l’unico punto in comune tra quella serie e “Il cacciatore di demoni” (un altro titolo poco edgy, eh?) era la volontà di premere il più possibile l’acceleratore sulla componente “azione”.
Anche in “Le guerre infernali” erano presenti combattimenti, perlopiù scazzottate, e altri momenti dinamici, ma erano alternati a delle fasi investigative e di world building. Sotto questo punto di vista, “Il cacciatore di demoni” era molto più diretto.
Breve riassunto della trama: in un futuro post apocalittico dei demoni arrivati da chissà dove seminano il terrore, ma per fortuna un giovane uomo sa come fermarli. Si tratta di Alexander Bown ed è un abilissimo guerriero armato di una frusta che, all’occorrenza, può trasformarsi in una spada. Assieme a Rechel, una ribelle dal grilletto facile, e Andrew, noto anche come Mr. Zero Personalità, viaggia per un mondo alla rovina alla ricerca dei frammenti dei medaglioni del Sole e della Luna, tutti protetti da creature abominevoli. Questi oggetti sono necessari per formare il medaglione dell’Eclissi e ottenere l’unico oggetto in grado di risolvere la situazione: una falce capace di rispedire i demoni da dove sono arrivati. Ma per usare un oggetto così potente è necessario essere disposti a sacrificare la propria vita e solo chi ha già perso tutto, come Alexander, è davvero pronto a fare qualcosa del genere…
A dirla tutta, anche a distanza di anni la trama di “Il cacciatore di demoni” non mi dispiace. La trovo meno pasticciata rispetto a quella di “Le guerre infernali” e credo che con le giuste limature qua e là potrebbe funzionare.
Purtroppo il me stesso quattordicenne, non ricordo se volontariamente o no, strutturò il tutto come se si trattasse di un videogioco, puntando troppo sull’azione fine a sé stessa e lasciando pochissimo spazio all’introspezione psicologica dei personaggi, che tendevano ad accettare con troppa facilità dei cambiamenti enormi solo perché quel piccolo immaturo affascinato da Devil May Cry (sì, sto parlando di me stesso) non vedeva l’ora di farli finire in qualche altro combattimento. Un vero peccato perché, come già detto, gli spunti interessanti non mancavano.
Dopo due storie del tutto originali, nell’estate nel 2007 mi approcciai per la prima volta al mondo delle fanfiction con Dragon Ball D.
La trama, che si svolgeva qualche tempo dopo gli eventi del GT, ruotava attorno all’improvvisa scomparsa di Vegeta e ai tentativi degli altri guerrieri Z di rintracciarlo. Scrivevo un (breve) capitolo al giorno, con delle sporadiche eccezioni, godendomi parecchio le interazioni con i vari utenti che commentavano (era la parte che preferivo).

Fu proprio grazie a un consiglio di uno di loro che aprii gli occhi su un difetto che mi trascinavo dietro da quando andavo avanti a scrivere: soffermandomi poco sulla psicologia dei personaggi finivo spesso per rendere piatte e banali delle scene potenzialmente molto belle ed emozionanti. Tenendo a mente questo prezioso insegnamento, iniziai ad approfondire quello che è universalmente riconosciuto come il personaggio più importante di Dragon Ball: Mr. Satan.
Sì, sono serio.
In un capitolo, dedicato all’arrivo di una nuova versione di Majin Bu (qualcuno ha detto fanservice inutile?), il campione del mondo è costretto a confrontarsi con la propria codardia e, pur di salvare una delle poche persone che tiene davvero a lui, arriva a mettere in gioco la propria vita, pur sapendo di non poter davvero fare la differenza. Scrivere quelle scene mi aprì gli occhi. Se potevo ottenere un risultato del genere con un personaggio come Mr. Satan, di sicuro con gli altri guerrieri Z potevo fare molto di più.
Pur continuando a dare un bel po’ di spazio alle scene di combattimento (dopotutto era pur sempre una fanfiction su Dragon Ball!) iniziai a dare sempre più importanza alla psicologia dei personaggi, ottenendo dei risultati interessanti.
Commisi però altri errori, come allungare il brodo più del necessario e inserire fin troppi personaggi superflui nel secondo arco narrativo.
Alla lunga l’attesa tra un capitolo e l’altro iniziò a dilatarsi e col passare prima dei mesi e poi degli anni, Dragon Ball D finì nel dimenticatoio. Il mio errore più grande con quella storia? L’ambizione.
Molto banalmente, la trama che volevo raccontare (suddivisa in quattro archi narrativi) era di gran lunga superiore alle mie capacità. A ogni modo, devo ammettere di non avere rimpianti. Nonostante i suoi mille problemi, Dragon Ball D fu un enorme passo avanti nel mio percorso come scrittore e mi permise di stringere dei legami molto importanti.
Tra one shot, progetti iniziati e abbandonati e strani esperimenti (tipo il testo di una canzone) la mia permanenza nel mondo delle fanfiction proseguì anche dopo la (non) conclusione di Dragon Ball D.
Partecipai ad alcuni tornei (tanto divertenti quanto utili), esplorai vari generi (dal noir all’introspettivo) e feci il tifo per alcune coppie (continuo a sostenere che Franziska Von Karma e Adrian Andrews starebbero benissimo insieme).
Di aneddoti da raccontare ce ne sarebbero, ma preferisco concludere questo excursus parlando dell’unica altra fanfiction che ottenne un “successo” paragonabile a Dragon Ball D.
Si tratta di Justin Shield: Ace Attorney, anche se all’inizio non si chiamava così. In origine il titolo era Goku: Ace Attorney (o qualcosa di molto simile) e, come intuibile, era un’altra fanfiction dedicata a Dragon Ball.

Tutto nacque dalla mia passione per la serie di videogiochi Ace Attorney e da una semplice domanda: “come funzionerebbe una storia in cui Goku è l’avvocato e i vari nemici sono i procuratori?”.
Scrissi un primo caso in cui l’antagonista era Pilaf (mi sembrava quanto di più simile a Winston Payne esistesse nell’universo di Dragon Ball), lo postai sul forum di Dragon Ball in cui avevo portato avanti Dragon Ball D e ottenni dei riscontri positivi.
A un certo punto, però, mi resi conto che quella storia non aveva nulla a che fare con l’opera di Akira Toriyama. Cambiando nomi ai personaggi il tutto avrebbe funzionato lo stesso.
Ed è così che Goku divenne un giovane avvocato di nome Justin Shield, Pilaf prese le sembianze di Payne (si tratta di un passo avanti o indietro? Difficile dirlo…) e il maestro Muten divenne Kogoro Odaki, il mentore del protagonista.
Pur continuando a postare i capitoli della fanfiction anche nel forum di Dragon Ball, a un certo punto iniziai sottoporre quella storia anche a un pubblico più adatto: gli utenti del Phoenix Wright Forum.
È proprio qui che incontrai per la prima volta il buon Gabriele.
Proprio come Dragon Ball D, pure Justin Shield: Ace Attorney si rivelò una storia più ambiziosa e complicata da gestire del previsto.
Pur avendo in mente almeno 15 di casi (legati tra loro da una trama abbastanza intricata) riuscii a scriverne solo due e mezzo. Ancora una volta avevo fatto il passo più lungo della gamba. Commisi anche altri errori, legati più che altro alla mia inesperienza col genere giallo/investigativo (dopotutto fino a quel momento mi ero occupato di tutt’altro).
Resi il primo caso fin troppo banale, mentre nel secondo complicai il tutto senza motivo, intersecando tra loro tre omicidi diversi. Un’idea che ai lettori piacque, ma che col senno di poi gestirei in modo molto diverso.
In generale, il tempo dedicato a Justin Shield: Ace Attorney si rivelò tutt’altro che inutile.
Scrivere una storia con poca azione e tanti ragionamenti mi costrinse a cercare modi sempre nuovi per tenere alta l’attenzione dei lettori (non bastava più inserire un nuovo nemico da affrontare) e mi fece apprezzare un tipo di narrazione diverso da quello a cui ero abituato.
Inoltre, le lunghissime chiacchierate con Gabriele sulle nostre fanfiction e sulla scrittura in generale mi aiutarono molto a tenere viva la mia passione per quella forma d’arte. Anche le critiche di una ragazza che frequentava il forum, tanto aspre quanto corrette, mi aiutarono tantissimo per correggere alcuni dei difetti presenti nelle mie opere.
In conclusione, mi sento di dire che ognuna delle esperienze di cui ho parlato in questo post è stata un passo avanti importantissimo nel mio percorso come scrittore. Un cammino che mi ha portato a pubblicare un primo libro nel 2019 (I Guardiani dei parchi) e che, se tutto andrà per il verso giusto, mi permetterà di trasformare molte altre delle idee che mi frullano in testa in dei romanzi. Tutto quel che si può fare è mettere un piede dopo l’altro. Solo dopo aver macinato chilometri su chilometri si può davvero valutare dove si è arrivati.