Padova, la città dei “senza”

Il mese di giugno vede questa città in fermento per la sua festività più sentita: le celebrazioni per il patrono Sant’Antonio. Stiamo parlando di Padova, città famosa, oltre che per la sua basilica, per l’università e per l’Orto Botanico.

Per gli appassionati di stranezze, tuttavia, Padova è nota anche per essere famosa come la città dei “senza”. Ma “senza” cosa? Scopriamoli insieme.

1. Il Santo senza nome

Basilica di Sant’Antonio

Proprio lui, Sant’Antonio da Padova, è una delle figure religiose più amate della religione cristiana e la sua basilica attira circa 3 milioni di pellegrini l’anno, rendendola di fatto una delle attrazioni più visitate della città.

In realtà, Sant’Antonio era nativo di Lisbona e trascorse solo gli ultimi anni della sua vita a Padova, dove morì; ciò non gli impedì, tuttavia, di conquistare i cuori di tantissimi fedeli, grazie alle sue lotte contro le ingiustizie a difesa degli strati più vulnerabili e oppressi della popolazione. La sua fama è talmente diffusa che i padovani (e non solo) lo chiamano semplicemente “il Santo”, senza specificarne il nome, poiché sarebbe superfluo.

2. Il Prato senza erba

Prato della Valle

Tra le piazze più iconiche d’Italia e probabilmante d’Europa (grazie ai suoi circa 90.000 metri quadrati è infatti la piazza più grande d’Italia e una tra le più grandi in Europa) non si può evitare di menzionare Prato della Valle, il “Prato senza erba”. La piazza di forma ovale è un grande spazio monumentale con un’isola verde centrale, chiamata Isola Memmia, delimitata da un canale su cui svettano due file di statue rappresentanti le più illustri personalità nate o vissute in città, tra cui Antenore, Torquato Tasso, Francesco Petrarca e Galileo Galilei.

Il prato vero e proprio che possiamo vedere ora, una volta non esisteva; infatti, il termine “pratum” indicava un ampio spazio utilizzato per scopi commerciali, ma non necessariamente coperto da un manto erboso. Oggi la piazza è cornice di mercatini e manifestazioni ed è tappa obbligata per turisti e non.

3. Il Caffè senza porte

Caffè Pedrocchi

Altro simbolo di Padova è senza dubbio il centralissimo Caffè Pedrocchi, caffè letterario progettato nell’800 dall’architetto Giuseppe Jappelli. Una volta il fulcro della vita letteraria e universitaria della città, è ora la cornice perfetta per un caffè o un aperitivo. Oltre a essere famoso per essere stato, appunto, sprovvisto di porte e aperto 24 ore al giorno fino al 1916, il caffè è anche noto per un’altra curiosità: secondo le leggende popolari, sembra che il detto “essere al verde” sia nato proprio qui, poiché nella sua cosiddetta “sala verde” chiunque poteva accomodarsi senza consumare.

Oltre ai tre elementi più famosi, gli occhi attenti possono scovare altre particolarità legate ai “senza” di Padova, tra cui: il “bue senza corna“, simbolo dell’Università (fondata nel 1222); il “capitello senza colonna“, posizionato all’angolo del Palazzo della Ragione sul lato di Piazza delle Erbe; e il “campanile senza chiesa“, tra via Fermo e via Davila, rimasto “abbandonato” dato che la chiesa è stata utilizzata come officina e garage prima, e come banca poi.

Un’ultima curiosità: osservando l’orologio astronomico in Piazza dei Signori, ci si può accorgere che tra tutti i segni zodiacali, la Bilancia (simbolo di giustizia ed equità) è assente. Secondo la leggenda metropolitana si tratta di un atto di ritorsione dell’autore nei confronti del committente, ma la vera spiegazione è decisamente meno folkloristica: infatti, il riferimento teorico usato per la realizzazione dell’orologio era l’astronomia greca, in cui la Bilancia non era ancora stata definita come costellazione autonoma (verrà identificata in seguito dagli arabi), e le sue stelle erano considerate facenti parte della costellazione dello Scorpione.

Orologio astronomico

Insomma, non solo Università e Cappella degli Scrovegni: Padova è molto di più, e anche i suoi “senza” la rendono una delle mete più affascinanti del Nord-Est. Armatevi di spirito d’osservazione e, perché no, di uno spritz da passeggio, e sicuramente questa città ricca di storia non vi deluderà.

Il Castello Angioino-Aragonese di Gaeta

Tra i monumenti più importanti Gaeta, spicca il Castello Angioino – Aragonese, che si erge su un promontorio marittimo. È sito vicino al Monte Orlando.
Il castello si divide in due parti: quella più alta, di origine Aragonese, detta “Alfonsino”, eretta da Alfonso d’Aragona nel 1442 quando fece di Gaeta la base per la conquista del trono di Napoli, è occupata dalla Scuola Nautica della Guardia di Finanza; mentre la zona Angioina, edificata nel 1279 durante il regno di Carlo d’Angiò, ospita una sede dell’università di Cassino.

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La Montagna Spaccata di Gaeta

La Montagna Spaccata è uno dei luoghi più suggestivi ed evocativi di Gaeta. Si tratta, come suggerisce il nome, di un monte squarciato con tre fenditure. La leggenda che quando Gesù Cristo morì sulla croce, il velo del Tempio di Gerusalemme si squarciò provocando tre profonde fenditure nella roccia.

Sulla Montagna si erge il Santuario della SS. Trinità. A sinistra della chiesa, una delle fenditure conduce alla Grotta del Turco, un luogo di pellegrinaggio. Vediamo alcune storie legate alla Montagna.

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L’Aula Ottagona, il Planetario – Folklore romano #7

L’Aula Ottagona, più comunemente conosciuta come il Planetario, è riuscita a scampare alle ingiurie dei secoli, mantenendo così la sua imponenza e maestosità.

Del valore di un miliardo, il congegno simula la volta del cielo con le sue costellazioni, i suoi astri e i suoi movimenti, assolvendo tre scopi importanti: divulgazione scientifica, attività culturali e spettacolo.
Questo grazie a un gioco di luci che evidenziava gli astri, in genere quelli effettivamente visibili in quella determinata sera.

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Porta Salaria: una delle Porte scomparse – Folkore romano #6

Le antiche Porte romane delle Mura di Roma sono oggigiorno immerse e soffocate dalla Città Nuova e dal frastuono del suo traffico. Altre sono andate perse o distrutte.

Tra di queste figura Porta Salaria: aperta da Aureliano quando volle estendere la cinta delle mura, e poi restaurata da Belisario e da Narsete, sorgeva in quella che è oggi piazza Fiume e immetteva nella via Salaria.

Nel 409, entrarono i Goti di Alarico dopo una lunga resistenza degli assediati. I barbari incendiarono i Giardini Sallustriani e gli edifici prossimi all’entrata, sfogando poi per tre notti la loro ira con morti e devastazioni, saccheggiamenti e furti.

Belisario allora cercò di provvedere alla sicurezza malferma di Roma, restaurando le mura in gran parte cadenti, rifacimenti che purtroppo si rivelarono inutili e poco efficaci.

Un’invasione in un certo senso positiva fu quella del settembre 1870, quando le truppe italiane entrarono in Roma attraverso la famosa “Breccia di Porta Pia“. Nel punto dove i Bersaglieri si aprirono il varco, alle mura ricostruite è addossato un prospetto in marmo ove sono ricordati i nomi dei soldati caduti in battaglia.

La porta fu abbattuta nel 1871 dopo essere stata danneggiata dai cannoneggiamenti del 1870. Venne poi ricostruita nel 1873 dal Vespignani, ma subì un’ultima, definitiva demolizione nel 1921 per ragioni di viabilità. Sul selciato si nota ancora il tracciato dell’originale della porta, “disegnata” con cubetti di porfido.

Chiesa di Sant’Agata de’ Goti – Folklore romano #5

Nel quartiere di Monti, poco discosta dal quadrivio di via Panisperna, affacciata su via Mazzarino, troviamo l’antica chiesa di Sant’Agata de’ Goti.
La fronte è del ‘700, dovuta a Francesco Ferrari; poco oltre troviamo un cortiletto del 1633 pieno di vegetazione, che impedisce il filtrarsi della luce e dei rumori.

Il portale della chiesa si trova accanto a lapidi e tombe antiche, e da qui arriviamo al bellissimo interno, adornato di mosaici bizantini dal console romano, di origine gote, Flavio Ricimero, da cui la chiesa venne fondata, nel V secolo.

Allora perché il nome “Chiesa di Sant’Agata dei Goti”?

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Le fontane di piazza Barberini e l’acqua di miele – Folklore romano #4

Piazza Barberini ha per sfondo il palazzo omonimo e mette in risalto, in tutta la sua gloria, la Fontana del Tritone, realizzata dall’artista Bernini su ordine di Urbano VIII.

La fontana è formata da quattro delfini che sostengono una conchiglia aperta. Su di essa siede il “glauco”, che, a giudicare dalla posizione, sembra voler prendere fiato per suonare, ma dalla sua bocca fuoriesce uno zampillo d’acqua.

Al cominciare di via Veneto si trova l’altra Fontana: quella delle Api. Realizzata sempre da Bernini per conto di Urbano VIII, è formata da una grande conchiglia posta accanto all’ape regina che sembra volare verso l’alto. Le due api, invece, mostrano di dissetarsi nella vasca e spruzzano l’acqua. Le api alludono allo stemma di Barberini.

Si dice che l’acqua, ai tempi dell’artista Bernini, fosse rara nelle case più modeste. Dunque Bernini, a cui era stato concesso di beneficiare di un certo quantitativo di acqua, la rivendesse a prezzo alto.
Il popolo romano, in collera, si trovava a commentare sul fatto che le api della fontana “succhiassero l’acqua per poi ridurla in minuscoli getti” (le stesse api che il papa celebrava nell’atto di “succhiare il miele”, dunque con un significato ben differente rispetto alla detta insinuazione).

La finestra della vecchina – Folklore romano #3

Uno degli edifici più imponenti di Roma, che rivolge una fronte verso via del Gesù, l’altra verso la piazza del Gesù, è il palazzo Altieri, uno dei più imponenti di Roma ad opera di Giovanni Antonio de Rossi, architetto illustre noto verso la metà del 1600.

Una curiosità del palazzo è proprio la cosiddetta “finestra della vecchina”, una finestrella che sembra essere fuori posto, e che si nota all’inizio della via.
Alla finestra è legata un curioso racconto: una vecchietta, molto affezionata alla sua casetta, ne rifiutasse l’esproprio. Quando venne costruito il palazzo Altieri, lei fu minacciata di rappresaglie e si rivolse al proprietario, il Cardinale Altieri (in seguito Papa Clemente X).

Il suo desiderio di mantenere intatta la casetta fu onorato: l’edificio venne lasciato intonso e anzi incorporato nel palazzo Altieri, dove la vecchina poté vivervi tranquillamente, godendo di una pensione pontificia.

In realtà non tutti sono d’accordo su quale sia effettivamente la finestra della vecchina, poiché le finestre fuori posto sono due, l’una ben lontana dall’altra.

La dea Mefite – Pillole di Folklore # 36

Mefite era una divinità italica associata all’acqua e venerata in luoghi in cui era quasi sempre presente un fiume o un lago. Alcuni rinvenimenti archeologici hanno documentato la presenza del suo culto in Lazio, Molise e Abruzzo, oltre che nel territorio dell’Irpinia e in Lucania. Era la protettrice della fertilità dei campi e della fecondità femminile. Pare che il suo culto fosse legato anche al rito della transumanza. Non era raro, infatti, trovare delle aree sacre dedicate alla dea nei percorsi tratturali.

Nella valle d’Ansanto viene identificato col nome di Mefite un piccolo lago di origine solfurea, le cui esalazioni sono nocive per l’uomo. In passato, vicino al lago era stato eretto un tempio dedicato alla dea. È opinione comune che, col passare del tempo, la divinità sia stata sempre più associata alle esalazioni dello zolfo, fino a diventare una entità malefica legata alle paludi sulfuree e alla morte. Talvolta veniva però anche associata ai benefici delle acque termali e solforose.

È probabile che Mefite abbia perso il suo status di protettrice dell’acqua in seguito alla romanizzazione del territorio italiano e all’introduzione di nuove divinità. Le trasformazioni che il culto di questa dea ha subito nel corso dei secoli sono molto affascinanti e degne di interesse.

Per approfondire:

https://www.romanoimpero.com/2011/03/culto-di-mefite.html

La Dea Mefite e la Valle di Ansanto

La casa dei mostri – Folklore romano #2

La cosiddetta casetta dei mostri di via Gregoriana, creata nel tardo ‘500, è un miscuglio di arte tardo-rinascimentale, manierismo e severa arte della controriforma, che ha dato vita ad altre creazioni surreali site a Tivoli, Frascati e altre località. Un preludio delle fantasie del barocco.

La leggenda vuole che i papà romani portassero i figli dinanzi tale casa per stupirli e ammonirli, dicendo loro che, se avessero disubbidito, il “babau” li avrebbe mangiati. Il babau è infatti un mostro che porta in testa il timpano come un cappello e spalanca una bocca enorme, la porta della casetta.

Il palazzo è inoltre stato caro a D’Annunzio, essendo infatti menzionato nel romanzo Il piacere, e si dice sia stato la residenza di Salvator Rosa.
Al giorno d’oggi, assieme al palazzo adiacente, la casetta dei mostri è parte della Biblioteca Hertziana, una raccolta di libri d’arte e storia dell’arte consultabile dagli studiosi.